QUARTO DISPACCIO. NEPAL. SAVE THE CHILDREN

6 ottobre 2012 

Save the Children. Nepal.

Mentre facevo le pratiche doganali negli improponibili uffici doganali da Bambassa mi sono fatto una domanda: cosa so del Nepal?

Se mi rispondo superficialmente, abbastanza. Everest, Annapurna, Kumari (la dea bambina), campi base, sherpa, gurkha, freak street, Siddharta, Cat Stevens, Peter Green, magic bus.

Beh, sembra parecchio. Del resto sono della generazione che è venuta quaggiù a cercare qualcosa, anche se personalmente ero troppo povero e giovane per arrivare fino a qui.

Ma superiamo i luoghi comuni. Quanto sappiamo della realtà nepalese degli ultimi dieci anni?

Molto poco, se usciamo dagli stereotipi del trekking e dell’hippy-reducismo.

Tanto per cominciare, noi siamo entrati in Nepal dalla “porta di servizio”. Un piccolissimo valico, Bambassa, di cui entrambe le nazioni sembrano vergognarsi.

Dalla parte indiana ci si arriva per strade secondarie, che diventano sempre più secondarie fino a perdersi in un mercatino di bancarelle immerse nell’immondizia. Dietro alle bancarelle, solo grazie alle indicazioni dei venditori, ci infiliamo in un sentiero che nella jungla, poi lungo l’argine di un canale e infine vediamo un piccolo cancello. Chiuso. Il traffico di pedoni e biciclette stracariche passa per un tornello lì a fianco, in cui non potremo mai infilare la moto. Una soldatessa ci apre e attraversiamo il canale sul margine della diga. Il percorso è largo poco più di un metro e dobbiamo procedere a passo d’uomo nella coda di persone che vanno su e giù.

Attraversato il canale c’è una brusca curva in discesa che sembra il letto di un torrente: grossi sassi tondi lasciati da qualche inondazione. Mentre scendo traballando qualcuno caccia un urlaccio. Da una casupola esce un tizio in borghese: questa è la dogana indiana. Gli faccio segno che non posso fermarmi dove sono e proseguo per un centinaio di metri, fino ad un punto relativamente piano. Torno indietro a piedi fino all’ufficio. Gentili.

Facciamo un po’ di conversazione intanto che il tizio fa fare le pratiche agli aiutanti. Poi passiamo alla casupola successiva: dogana della moto. Trovano che il carnet è stato compilato scorrettamente alla frontiera d’ingresso, ma si preoccupano di risolvere il problema senza mettermi in mezzo. Proseguiamo per circa un km e arriviamo in un paesino di campagna: mucche, polli, maiali. Una delle baracche è la dogana Nepalese. Paghiamo il visto e facciamo vidimare il carnet. Un ultimo check point e siamo in Nepal. Jungla, infinite risaie, fango, casette di fango, bufali che sguazzano nel fango. Ne montagne ne sherpa: solo riso e un caldo asfissiante. Siamo a 700 km a ovest di Kathmandu. Ho cercato per giorni di tracciare questa rotta con Google Earth: questa strada non esiste. Ogni opzione che ho tentato implica il ritorno in India e il rientro da una frontiera successiva. Anche per Google Earth il Nepal non esiste.

La visita ai progetti seguiti da Save the Children in quest’area, è stata programmata con cura. Ci hanno inviato l’agenda con giorni di anticipo: in totale sei o sette incontri, a cui si aggiungono riunioni con lo staff degli uffici locali. Insomma: una cosa organizzata nei minimi dettagli. Pure troppo. Ma va bene così: se hanno delle cose da mostrarci è meglio che le vediamo con ordine. Non tutti i progetti che visiteremo sono stati finanziati da Mediafriends, ma saranno utili per capire come S.t.C. lavora.

Alla frontiera ci hanno ricevuti in tre. Due operatori dell’ufficio di Danghadi. e la responsabile comunicazione, che è venuta apposta da Kathmandu. Il loro aiuto ha accelerato parecchio tutte le pratiche e ci ha aiutato a trovare uffici introvabili.

Dopo aver superato la dogana, viaggiamo per un paio d’ore (il tempo del viaggio è previsto nel programma con molta precisione). La strada è asfaltata, stretta e con pochissimo traffico. A destra e a sinistra solo risaie o jungla. Ogni tanto compaiono piccolissimi villaggi interamente costruiti in fango. La tecnica di costruzione ha molto in comune con quelle usate in Africa: una struttura di legno intonacata in fango mischiato con paglia tritata o altri sottoprodotti vegetali. Il tetto è coperto di paglia o, nei casi più fortunati, di fogli di lamiera ondulata. Attorno alle case, piccoli granai, stalle, mangiatoie e i soliti, immancabili, bufali.

Raggiungiamo Danghadi che è ormai buio. Siamo stanchissimi: siamo in moto da 11 ore e la strada è stata molto dura. Incappiamo in un ingorgo (difficile credere che anche Danghadi possa avere i suoi ingorghi): c’è uno sciopero generale. La strada è bloccata dalla polizia e da una quantità di veicoli delle forme più strane incastrati gli uni negli altri. Non passeremo mai. Uno dei responsabili locali di S.t.C. va a parlare con qualcuno. Dopo qualche minuto si apre un millimetrico varco e saltellando fra i sassi e il fango, superiamo l’ingorgo. Come mai? E’ bastato dire che c’erano delle persone di S.t.C. che arrivavano da “molto lontano” ed erano “molto stanche” per sospendere il blocco stradale per il tempo necessario a farci passare.

Arriviamo in albergo, facciamo una doccia e interroghiamo le persone che stanno con noi per conoscere meglio Save the Children. L’obiettivo di S.t.C. è, con anglosassone coerenza, quello di salvaguardare i bambini.

Un compito semplice da capire ma molto difficile da realizzare.

I bambini non sono soggetti attivi. La loro protezione è legata ad una infinità di attività che devono creare l’ambiente ideale per la loro crescita. Che coinvolge tutta la società, almeno per quanto riguarda la generazione che precede quella di coloro che sono attualmente bambini.

Ma così il problema si amplia all’infinito. Perché i bambini stiano meglio occorre modificare cultura, economia e tradizioni millenarie. Il Nepal, pur essendo la patria di Siddharta e del Buddhismo, è in grandissima parte Induista (in realtà la differenza fra la filosofia buddhista e la religione induista qui non è mai così netta). Questo implica l’esistenza di rigide distinzioni castali, sessuali e religiose. Il tutto innestato in un paese poverissimo.

Una tradizione per tutte: le famiglie dalit (intoccabili) sono più povere delle altre. Non possiedono terra, ne altri mezzi di sostentamento. Non hanno denaro e sono storicamente escluse da ogni organizzazione spontanea. Uno dei modi che tradizionalmente hanno per tentare di guadagnare qualche soldo è quello di affittare i figli (preferenzialmente le femmine) a famiglie più ricche.

In realtà non si tratta di un vero e proprio affitto, che darebbe al “bene” qualche diritto. Si tratta della cessione, a fronte di un pagamento rateale versato dalla famiglia affittuaria a quella naturale. Il “bene” non può decidere se essere affittato o no, a chi esserlo, per quanto tempo. E, a fronte del pagamento alla sua famiglia, è esposto a qualunque genere di vessazione. Del resto è un dalit che va in una famiglia di casta superiore. Non ha diritti per nascita, e il pagamento gli toglie ogni possibilità di reclamare alcunché.

Torniamo alla storia recente. Negli ultimi vent’anni, nel tentativo di combattere queste tradizioni e di liberarsi di una monarchia inetta e incapace (uno degli ultimi eredi al trono ha falcidiato la famiglia reale a colpi di pistola per avere meno concorrenza) si è sviluppata una guerriglia maoista che è arrivata a controllare oltre il 40% del territorio e probabilmente il 60% della popolazione. Questo ha portato guerre, attentati, delitti ma anche un superamento “coatto” di certe tradizioni: essere maoista non permette di fare distinzioni castali. Cinque anni fa, la rivoluzione si è concretizzata con la cacciata dell’ultimo re e l’insediamento di un governo democratico costituente a cui partecipano tutte le opposizioni, maoisti compresi. Perciò è stata dichiarata illegale la divisione in caste e la cessione dei figli.

Altra cosa però è veder sparire completamente queste consuetudini: se una famiglia non ha i mezzi per sopravvivere finisce con il cedere una figlia lo stesso.

Il primo progetto sostenuto da S.t.C è proprio una scuola in cui vengono accolti a bambini sottratti “all’affitto”. Come dicevo, la cosa implica tutta una serie di strumenti “indiretti”. Le famiglie povere non possono sottrarsi a questa tradizione senza che il reddito garantito dalla cessione di un figlio venga sostituito da una serie di aiuti. Perciò la scuola e tutti i suoi servizi sono a costo zero. Anche così, una bellissima bambina di 5 anni, può frequentare solo per tre/quattro mesi all’anno: il resto del tempo lo passa ad aiutare la mamma a fabbricare mattoni.

La scuola è essenziale (solo alcuni degli edifici sono in mattoni) ma tutto è molto curato, pulito, sulle pareti è stato dipinto con cura l’abbecedario in inglese e in sanscrito e le tabelline con i numeri. Il personale rimarca come sia stata essenziale la creazione di una latrina per ridurre l’incidenza delle malattie legate alla mancanza di igiene come la diarrea e il colera. Ci studiano, o vengono semplicemente curati, più di 100 fra bambini e bambine. Tutti con la camicina azzurra e i calzoncini o la gonnellina blu. Tutti uguali.

Mentre ce ne andiamo, sentiamo i bambini dei primi corsi declamare ad alta voce: one one: ileven. One tu: tuelv. One tri. Tirtìn. One puor: portìn. One paiv. Piptìn…

Ci spostiamo in una scuola più grande, che offre anche i corsi secondari, in un’area dove il governo non ha potuto impiantarne alcuna. Ci ricevono a collane di fiori (imbarazzo totale). La scuola è più grande ma ha un problema: il terreno concesso per la sua costruzione è in riva al fiume e poco meno di una settimana fa è stata allagata da una piena. E’ già tutto ripulito e in ordine, ma sui muri esterni si vede la traccia del fango, che arrivava a più di un metro e mezzo. Qui facciamo un paio di esperienze interessanti. La prima è divertente e geniale. I ragazzi più grandi preparano delle pieces (street dramas) che recitano nei villaggi, a scopo educativo. Per noi mettono in scena il pezzo intitolato “diarrea”. A parte l’argomento, il pezzo è esilarante. E anche molto intelligente. Mette in guardia contro le principali disattenzioni igieniche e contro maghi e santoni che promettono cure inefficaci e costose. Ai primi sintomi, meglio andare all’ospedale. Insieme a noi c’è l’intera scuola e quasi l’intero villaggio. Seguono con la bocca aperta e scoppiano a ridere ad ogni battuta.

La seconda esperienza è la successiva riunione del comitato civico che affianca la scuola. Una struttura parallela che interloquisce con la scuola per ogni decisone importante. Prendono la parola in parecchi, senza timidezza, e scopriamo che molti dei rappresentati del comitato sono dalit. Perciò il superamento delle caste passa anche dal coinvolgimento dei genitori in questi comitati. Argomento della riunione: dobbiamo fare una latrina anche in questa scuola: è chiaro che riduce l’esposizione alle malattie.

Cominciamo a capire meglio come funziona. Deve essere coinvolta la comunità: quando si vedono i risultati non li ferma più nessuno.

Ma il miglioramento del reddito famigliare? La malnutrizione?

Ci arriviamo il giorno dopo, dopo un trasferimento su strada asfaltata fino a Nepalgunj e una trentina di km di fango e jungla.

Qui si parla di economia. Incontriamo il comitato del villaggio. Sono una decina di persone. Uomini e donne, giovani e anziani, Intoccabili e no. Ognuno ha la sua carica: presidente, segretario, magazziniere, consigliere eccetera. Il loro compito è quello di gestire l’economia del villaggio e gli aiuti erogati dal governo e da S.t.C. Sono presenti sia incaricati della ONG che operatori locali. Il comitato si occupa di una cosa importantissima: il microcredito.

Il credito viene concesso ai richiedenti dopo un attento esame delle loro richieste. E’ a titolo personale (senza garanzie in solido) e solo parziale: una piccola parte dell’investimento deve provenire dai risparmi del richiedente. E, soprattutto: è garantita dall’intero villaggio. L’interesse è minimo e viene utilizzato per aumentare il fondo destinato ai finanziamenti. I progetti finanziati sono piccoli ma essenziali: scavare un pozzo per impiantare un nuovo tipo di coltivazione in un’area dove si produce solo riso. Il necessario per costruire una capanna in cui allevare polli. L’acquisto di due maiali per impiantare un piccolissimo allevamento. Un negozietto in cui riparare piccole attrezzature elettriche. I finanziamenti sono di 100 o 200 euro. Non di più. I fondi a disposizione non lo consentirebbero. Ma permettono di ridurre l’emigrazione, migliorare l’alimentazione, creare reddito. Alla fine vediamo anche il fiore all’occhiello della comunità: un piccolo impianto per la produzione di olio profumato. Una stupidaggine (per me che non ne capisco nulla): poco più che un pentolone in cui vengono trattate le moltissime erbe aromatiche presenti nell’area. La produzione è ottima, occupa le famiglie nel periodo in cui l’agricoltura è ferma e i commercianti Indiani se la comprano in blocco ad un buon prezzo. Il villaggio ne è fierissimo e l’uomo che se ne occupa personalmente cammina ad un palmo da terra. Si apre la discussione su dove trovare i fondi per costruire attorno all’impianto una struttura che lo ripari meglio dalle intemperie e consenta di salvaguardarlo e utilizzarlo anche quando piove molto. Ci fanno vedere come funziona: bruciano sottoprodotti dell’agricoltura e con il materiale avanzato fanno il compost.

Passiamo a vedere diverse attività sviluppate con il microcredito. Ma siamo certi che, anche qui, la chiave sia il coinvolgimento sociale: il villaggio aiuta, il villaggio garantisce, il villaggio controlla, il villaggio si arricchisce. E crediamo che la capacità di stimolare e indirizzare queste attività sia il vero segreto degli operatori di S.t.C. e delle strutture locali che la affiancano sul territorio.

Il tema del terzo giorno è la nutrizione.

Visitiamo il centro dove, ogni mese vengono controllati i neonati.

Un gruppo di signore, distinte da un sari blu, ricevono le giovani madri, pesano i neonati e fanno loro una piccola visita. Alle madri è affidato un depliant molto ben strutturato e perfettamente comprensibile anche da chi non sa leggere, in cui sono riportati il peso e la crescita del neonato mese per mese fino a due anni e una serie di consigli igienico nutrizionali. C’è anche la distribuzione di medicinali di base gratuiti. Per sollecitare le famiglie a seguire i programmi ci sono anche dei premi per il neonato meglio nutrito. Non c’è nulla come fare leva sull’amor proprio delle madri…

Il pomeriggio lo passiamo in un villaggio dove alcune ragazze insegnano alle giovani madri come preparare, solo con risorse locali, di solito male utilizzate, un ottimo integratore alimentare per i bambini. Non costa nulla: occorre solo sapere come si prepara. Si fanno tostare ceci, granturco e altro. Si macinano, si mischiano in determinate percentuali e si allungano con acqua, un po’ d’olio e, per invogliare i bambini, un po’ di zucchero. Ne viene una specie di Halwa. I bambini la gradiscono molto (per dire la verità piace molto anche a me) e l’intera attività coinvolge le donne più anziane (che hanno subito preso in mano la cucina) e favorisce la formazione di un circolo femminile, che se ne frega della caste.

Bello. Tutto molto bello. Mi chiedo come hanno fatto a superare gli inevitabili attriti all’interno delle comunità. Forse grazie ai collaboratori locali, che ho visto impegnatissimi e estremamente ben voluti. Bravi.

Aggiungo qualche notizia di colore locale: abbiamo visitato 6 o 7 villaggi. Due nella zona di Danghadi e gli altri nell’area di Nepalganj. Raggiungerli è stato un disastro; fango, strade interrotte, sentieri scassati, guadi profondi mezzo metro. Ma questa è la zona di più facile intervento: a ridosso della frontiera indiana. A pochi km si alzano delle ripide colline. Da quella parte non ci sono strade, non c’è corrente, non ci sono ospedali ne mezzi di trasporto. Da quella parte le cose sono molto più difficili.

Faccio fatica a immaginare come possa essere la vita nelle zone ancora più sfortunate di quella che abbiamo visitato noi. Ogni giorno abbiamo mangiato, bevuto o preso il Nepali chay, nelle case private o nel ristori lungo i sentieri. Sempre e solo fango. Perfino i mobili all’interno delle case sono fatti di fango. Sembra impossibile crederlo. Abbiamo mangiato seduti a terra, con l’aiuto di un paio di cucchiai trovati apposta per noi. Riso, dhal, qualche pescetto secco, vino di riso. Acqua minerale che ci siamo procurati la mattina prima di partire. Le case sono pulitissime, completamente vuote, salvo qualche immaginetta sacra, uno specchietto e un pettine appesi alla parete. I muri sono gialli, il soffitto è giallo, il pavimento è giallo, Con quella strana sensazione di elasticità che si prova appoggiandosi ad una parete o sedendosi per terra. Abbiamo pagato per ogni pasto. Circa 90 rupie: 75 centesimi.

In tutto il Nepal S.t.C. segue più di 80 progetti. Tre uffici territoriali, decine di coordinamenti locali, centinaia di operatori volontari. Per un paio di giorni raggiungiamo i progetti a cavallo di scassate motorette guidate dai volontari (abbiamo deciso che rischiare la nostra affrontando qualche guado o viaggiando su mucchi di sassi che sostituiscono i ponti crollati, la espone a qualche rischio di troppo: non siamo nemmeno a metà strada…). Il mio driver è un serissimo signore musulmano (in quest’area ce ne sono parecchi) che si manifesta molto preoccupato dalle riduzioni di budget a cui dovranno fare fronte: a quale progetto potranno toglierli? Quale comunità dovranno deludere?

Il driver di Anna è una simpatica signora di quarant’anni. Racconta che si dovuta sposare a 16, per accordi famigliari (qui i matrimoni sono ancora tutti combinati dalle famiglie). Ha dovuto smettere di studiare e ha messo al mondo tre figli. Ma ora ha recuperato la sua indipendenza impegnandosi nel sociale. Ha ripreso a studiare l’inglese e vuole rimanere in contatto con noi. Guida la moto meglio di un uomo e ha una forza e una simpatia incontenibili. Conosce tutti e sa la storia di ciascuno.

Conclusione? Save the Children protegge davvero i bambini?

Beh, ci prova. Molto seriamente.

Forse è vero che si possono portare a termine certe attività solo se si hanno ampie competenze e si è in grado di agire non solo sull’economia ma soprattutto sulla cultura e sul consenso. Se si hanno grandi finanziatori e stretti rapporti con i governi.

Forse è per questo che Save the Children è stata recentemente espulsa dal Pakistan con l’accusa di “fiancheggiare” la Cia?

Troppo capillari, sofisticati, potenti.

Insomma: bravi. Bravissimi. Per qualcuno anche troppo.

Cosa so ora sul Nepal? Che l’anno corrente è il 2069, che l’ora è 15 minuti in anticipo rispetto a quella indiana, che tagliano la benzina con il cherosene, che parlano circa 100 lingue diverse. Che sono poverissimi, che si danno da fare.

(Ho trascurato di comunicare dati, di cui siamo stati ricoperti, sui risultati delle attività: potrete trovarli sul loro sito, e non era compito nostro valutarli. Dovevamo solo vedere. Questo è quello che abbiamo visto.)