DECIMO DISPACCIO. BANGKOK. PRO.SA

26 dicembre 2012. Camillian House. Bangkok.

Parlando di questo progetto è impossibile non citare Giovanni Contarin (“frate” Giovanni Contarin) che mi sono permesso di chiamare amichevolmente “don Camillian” e, fra me e me, “frate Tuck”.

Devo parlarne per chiarire un aspetto della sua vita che è stato per lungo tempo fonte di leggende che ha lui stesso alimentato.

Ecco, lo dico: Giovanni Contarin, come motociclista, non è un granché.

So che questa notizia lo ferirà, perciò passo a parlare di lui, e soprattutto delle iniziative di cui si occupa, trascurando questa importante mancanza.

Il quintale (abbondante) di cui si compone Giovanni, ha raggiunto la Thailandia nel 1985 per occuparsi del Camillian Hospital di Bangkok, aperto nel 1952. Quali che fossero i suoi compiti, Giovanni non è un medico, l’ospedale è stato un ottimo osservatorio per indagare sulla situazione socio-sanitaria thailandese. Sottolineo un aspetto fondamentale: la posizione istituzionale di Giovanni (operatore in un noto ospedale “convenzionato” e rappresentante di una istituzione importante come la Chiesa Cattolica) ha fatto in modo che tutte le sue iniziative fossero pubbliche e sottoposte a stretti controlli incrociati.

Tutto sotto gli occhi di tutti, affrontando critiche severe e verifiche puntigliose.

Non deve essere stato facile: anche se Giovanni, quando parla con noi dice “voi italiani”, rimane quello che qui si definisce un farang. Quello che si può tradurre con “straniero” ma che nella complessa cultura Thai ha un significato molto ampio. Da questo punto di vista è stato molto utile leggere un’analisi dei costumi Thailandesi e apprendere che la lingua Thai comprende una trentina di consonanti e 35 vocali. Noi abbiamo solo 5 vocali, ben distinte e impossibili da confondere. In Thai la differenza è, ovviamente, quasi impercettibile. Basta una sfumatura per cambiare il significato di una parola. Aggiungete che nella scrittura non esiste punteggiatura e molte lettere sono sottintese. Questo comporta che il minimo errore di lettura comprometta l’intero significato di un discorso. Inoltre il popolo Thai evita negazioni, contrasti e rifiuti, perché considerati poco cortesi e, in definitiva, del tutto inutili. Perciò ad una inevitabile risposta positiva, un’approvazione o un assenso, non farà necessariamente seguito un’azione coerente.

Da questi prodromi e in questo contesto, nel ’90, Giovanni ha cominciato ad occuparsi di sieropositività. Grosso problema culturale e sanitario ovunque, enorme qui. Enorme, perché socialmente inaccettabile. Come tutti sanno, la prostituzione in Thailandia (spesso part-time) è molto diffusa. Giovanni la definisce un “servizio sociale”.

La sua diffusione è legata a molti aspetti strettamente connessi con la cultura. Il popolo thai ama divertirsi e considera il denaro come segnale essenziale di una vita felice. Citando sempre i testi a cui faccio riferimento, il denaro dà potere, posizione, status, amore e rispetto. E’ visto come un onore e chi lo possiede è elevato nella scala sociale e ammirato. Nella competizione sociale un bell’abbigliamento è indispensabile per evidenziare il proprio successo. Inoltre il duro lavoro per ottenerlo non è considerato il necessario mezzo per ottenerlo.

Perciò in definitiva, la prostituzione è vista come un mezzo per ottenere status e successo. E la sua diffusione è stata una delle molle che ha favorito la diffusione dell’infezione da HIV. Giovanni, dalla sua posizione di operatore sanitario, è entrato in contatto con questo problema fin dall’inizio. La sua prima idea è stata quella di aprire un centro di accoglienza per malati di AIDS. Salto tutta le avventure, i rischi e le difficoltà incontrati nei primi anni.

Anche Giovanni ne parla con parsimonia, come se riguardassero qualcun altro. Di fatto è successo questo: molte donne affette da HIV erano, o sono rimaste, incinte. La difficoltà di procurare medicinali (G. e i suoi fratelli li hanno dovuti contrabbandare per anni) abbinata alla negazione della malattia e alla scarsa cultura sanitaria media (p. es. l’uso intensivo di anticoncezionali anche durante la gravidanza o tentativi di aborto non riusciti) ha fatto in modo che molti dei bambini nati fossero, oltre che sieropositivi, anche disabili.

Il problema si moltiplica. Da una parte l’infezione da HIV negata per anni, dall’altra la credenza che il disabile sia segno di disonore, maledizione, indicazione di kharma negativo. In definitiva una persona priva di ogni utilità o capacità: da relegare e nascondere: tanto non potrà mai fare nulla.

Dai numeri dell’Ufficio Nazionale Statistiche risulta che, nel 2008, la Thailandia contava 65.566.359 abitanti, di cui 1.871.680 portatrici da handicap. Perciò, se da una parte G. ha dovuto combattere con le credenze diffuse anche da noi per inserire nella società i bambini affetti da HIV, ha dovuto occuparsi anche del lato più oscuro: i bambini disabili affetti da HIV.

Difficile. Difficilissimo.

Ma noi siamo qui per vedere i risultati di questo progetto: le difficoltà possiamo lasciarle ad altri. Il primo progetto di cura e educazione dei bambini sieropositivi di Rayong ha avuto uno “spinoff” quando due bambini sieropositivi non vedenti, sono stati rifiutati dalle scuole dove si insegna il linguaggio Braille. La sieropositività è ancora considerata una malattia infettiva che richiede l’isolamento. Tanto che quattro istituzioni lo hanno invitato a organizzare la scuola privatamente.

Perciò non restava che farlo. Con un paio di idee ben chiare in mente: l’integrazione fra disabili e sieropositivi è possibile e i disabili sono tutt’altro che privi di capacità. Iniziamo la visita in un contesto molto diverso dalle ultime: niente piste nella jungla, niente villaggi tribali persi fra le colline.

L’appuntamento, a cui arriviamo con mooooolto ritardo, è al Camillian Hospital di Bangkok. Un bell’ospedale. Se non fosse per l’aspetto esotico delle infermiere potrebbe essere a Milano o in qualunque città europea. Da lì ci spostiamo di una trentina di km per raggiungere la zona dell’aeroporto, dove sorge la Camillian Home di Lat Krabang.

Il fabbricato è recentissimo e ben fatto. Ci sono tutti gli accorgimenti architettonici per renderlo adeguato ai suoi compiti. Oltre a un buon numero di operatori locali qualificati (anche se molto difficili da trovare: la paura dell’AIDS fa in modo che molti rinuncino alla possibilità di lavorare qui) ci lavorano tre volontari “occidentali” un francese, un canadese e Antonella, che essendo italiana ha l’ingrato compito di offrirci il caffè e di spiegarci tutto e un volontario che occidentale non è: Faisal, pakistano, che si occupa di comunicazione e sviluppo.

Nel centro sono accolti 22 bambini residenti (orfani e/o colpiti da disabilità particolarmente gravi) e 28 in day care figli di famiglie dell’area che li affidano alla Camillian Home durante la giornata.

Qui mi permetto di fare un piccolo ripasso generale. I bambini accolti sono provenienti dal centro di Rayong, oppure indirizzati dall’assistenza sanitaria nazionale, da templi o altri ospedali. Tutti, ovviamente, sono regolarmente registrati presso l’autorità e sono seguiti gratuitamente.

Sono indirizzati qui perché la Thailandia non ha ancora la capacità di fornire un servizio sanitario adeguato in questo settore. La disabilità, unita allo stigma dell’HIV, fa in modo che molti bambini, in famiglia, non sopravvivano.

La maggior parte sono sieropositivi dalla nascita, figli di genitori che non si sono sottoposti alle terapie che avrebbero potuto evitare il contagio del nascituro. Altri sono stati molestati da adulti sieropositivi e hanno contratto il virus.

Comunque, nel panorama attuale, un corretto trattamento anti-retrovirale riduce l’incidenza di malattie e aumenta l’aspettativa di vita “normale” di molti anni.

Bene. Fino a qui sapevo (quasi) tutto anche prima di visitare il centro.

Ma c’era una cosa che mi preoccupava (preoccupava solo me, Anna ha un approccio molto meno psicotico): ho sempre avuto un approccio molto difficile con i disabili. Fra me e loro c’è l’invalicabile montagna della loro sfortuna. Come posso io, “normale fra i normali”, pensare di entrare nel loro mondo, così diverso? Come mi guarderanno “loro”? Con invidia? Odio? Distacco? Al massimo, pensavo, con curiosità.

Beh, le mie angosce si sono liquefatte in poche ore. In gran parte, credo, perché su di me si riverberava un poco dell’affetto e del cameratismo che provano per Giovanni e per il personale. Ma soprattutto perché “loro” non si sentono diversi da me.

Non ho visto dei disabili, ma dei bambini e dei ragazzi (e ragazze) che stanno facendo i conti con i loro problemi in maniera impegnata e positiva. Ho passato ore a vedere la fisioterapia su una bambina affetta da paralisi cerebrale. Questa patologia attacca i quattro arti in maniera diversa ma li rende tutti variamente inutilizzabili. Chi ne è affetto spesso è afflitto da tremori incontrollabili ed è molto difficile che possa camminare o condurre una vita indipendente. La bambina di cui parlo affronta esercizi fisici che le devono costare una fatica improba. Quando è arrivata qui era solo in grado di strisciare. Ora prende come un gioco la possibilità di gattonare in giro per la palestra cercando di riprendere i suoi sandaletti, che la fisioterapista le allontana un po’ di più ogni volta. Nella palestra si aggira una bimba affetta dalla sindrome di down. Il suo passatempo preferito è quello di aiutare le fisioterapiste nell’applicare le terapie. La fisioterapista lavora su una gamba, lei fa lo stesso sull’altra. Probabilmente diventerà una bravissima fisioterapista.

Ho visto non vedenti usare il computer per chattare. Li ho visti giocare a pallone. Il ragazzo di cui parlo “sente arrivare la palla” e riesce a controllarla con i piedi.

Dopo un’ora che ero lì mi salutavano per nome oppure con un gesto. La loro giornata è pienissima e rimane poco tempo per annoiarsi e deprimersi: la sveglia è alle sette e da quel momento è un continuo susseguirsi di stimoli e di esperienze.

Devono seguire le ore di riabilitazione. Imparare a condurre una vita quanto più possibile indipendente, perciò imparare igiene e pulizia, vestirsi e svestirsi, alimentarsi, gestire intestino e vescica, muoversi. In più devono imparare ad affrontare i problemi della vita, come prendere le medicine, fare qualche piccolo lavoro domestico, gestire il denaro, comprare cibo e abbigliamento e magari imparare ad usare i mezzi pubblici.

Poi c’è l’educazione “non formale”, riconosciuta dal Ministero dell’Educazione che occupa quattro semestri con l’insegnamento di matematica, Thai, Inglese, scienze e uso del computer. Nulla vieta ai più dotati di proseguire negli studi, ovviamente senza trascurare tutto il resto.

I non vedenti e ipovedenti hanno un training specifico. Per tutti ci sono attività musicali e artistiche che tendono a stimolare la creatività e l’abilità.

Una giornata pienotta insomma. Fra l’altro, visto che i ragazzi sono tutti disabili, ma affetti da disabilità molto diverse, lo scambio di esperienze è molto più ampio che in una comunità di normodotati. Si sfata così il luogo comune che considera i “diversi” tutti uguali, lasciando la individualità come caratteristica appartenente solo agli “altri”.

Questi ragazzi hanno carattere, idee, atteggiamenti e desideri diversi.

La domanda a questo punto è la seguente: avrebbero potuto sviluppare le loro capacità in un ambiente meno favorevole?

Sicuramente no. Non basta essere assistiti per superare l’enorme montagna della disabilità.

Qualcuno ha fornito loro strumenti e cultura per abbatterla. Togliendo pietra su pietra ora l’ha resa abbastanza bassa perché, sia noi che loro si possa vedere dall’altro lato. Ora quello che ci divide è solo un mucchietto di terra.

Giovanni afferma che il suo compito è quello di fornire ai disabili che ne sono privi, un’esperienza il più possibile vicina a quella di una famiglia.

Io direi che sta facendo qualcosa di più e, a mio parere, di meglio: offre loro l’esperienza della società.

Un’esperienza che non è legata alle dinamiche di sangue ma a quelle dell’affinità e della condivisione. Affinità e condivisione con tutti. Giovanni e il suo gruppo non stanno creando una gabbia diversa: la stanno distruggendo.

Credo che non condividerà il mio punto di vista e, visto che è tutto meno che timido, me lo farà sapere molto presto. Ma il mio punto di vista è questo: Giovanni e il suo gruppo fanno molto più di quello che “lui” pensa (o dice) di fare.

Per quanto riguarda i dati e le notizie su aspetti gestionali e sui futuri progetti, G. mi ha fornito un consistente faldone che ho gettato via mano a mano che lo leggevo (purtroppo il peso che si può portare in moto è molto limitato) ma che è facilmente disponibile per chiunque volesse approfondire.

Per chi lo volesse, suggerisco di dare un’occhiata ai dati sul rapporto costi/benefici, che è molto positivo. Ma sono tutte informazioni che potete avere anche senza di noi.

Perciò torno al mio compito: raccontare cose e fatti che non si trovano sull’annual report.

Ci siamo infilati sul pulmino che accompagna a casa i ragazzi in daycare. Mi sembrava di essere sul pullman della scuola quando avevo 8 anni. Mi sono piaciuti i fratelli, le madri e i padri che li attendevano sulla soglia di casa e che salutavano i compagni di scuola dei propri figli come tutti i genitori di figli normodotati fanno. Mi è piaciuta la loro aria rilassata nel tornare a casa la sera e eccitata di venire a scuola la mattina.

Abbiamo partecipato alla festa di Natale: tutti hanno riso, molti hanno cantato, qualcuno ha suonato la chitarra o la batteria (uno di loro sta prendendo lezioni di chitarra blues, ma al momento si incasina un po’ con le accordature), un paio dei più grandi hanno anche bevuto una goccia di spumante.

Abbiamo assistito alla decisione di una ragazzina focomelica di rinunciare alle sua gambe per sostituirle con delle protesi a poter finalmente camminare.

Abbiamo visto Giovanni lanciarsi nell’attività che preferisce: quella di sorprendere e architettare scherzi.

Abbiamo visto il suo sguardo desideroso quando ha visto la moto, abbiamo visto la sua gioia quando ci è salito e l’entusiasmo con cui l’ha guidata nel cortile della Camillian Home.

Abbiamo visto il suo sguardo perplesso quando, fermandosi, si è reso conto di non riuscire a reggerla.

Abbiamo visto le risate dei ragazzi quando è ruzzolato di lato, senza danni. Scommetto che, come ogni consumato animatore, aveva preparato questo “numero” con molto anticipo.

Serviva solo la moto adatta…

 Anna & Fabio

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