NONO DISPACCIO.UN PO' DI TURISMO !

Rieccoci qua.

E’ passato un altro mese ed è arrivato il momento di fare la solita seduta di autocoscienza.

Ci eravamo lasciati a Pakxe, sud del Laos, al punto in cui avevamo dovuto rinunciare alla visita in Vietnam.

Riprendo perciò da Pakxe, piacevole cittadina d’impronta francese nel sud del Laos. Visto che abbiamo fatto tutti gli sforzi per entrare in Vietnam, ci sentiamo delusi ma con la coscienza a posto: abbiamo tenuto duro per quanto era possibile. Ora dobbiamo occuparci di altro.

La sosta a Pakxe non la occupiamo solo con l’ennesima visita ad un consolato vietnamita e per prendere decisioni sul nostro programma di viaggio. Per fortuna c’è qualcosa di interessante da vedere: il Bolovens Plateau e Wat Phu.

Il Bolovens Plateau si trova una quarantina di km a est, dove i francesi iniziarono la coltivazione del caffè. La qualità è ottima e colpisce che in quasi tutti i bar lo preparino usando la classica caffettiera “moka”(quella dell’omino coi baffi…). La differenza, rispetto all’uso casalingo, è che ne ve ne piazzano davanti sempre “una da sei”. Voi state seduti al fresco e vi sorseggiate con calma mezzo litro di caffè. Poi non dormite per un paio di giorni.

Ma il Bolovens Plateau offre visioni molto più scenografiche. È spaccato da centinaia di corsi d’acqua più o meno invisibili che, dalla jungla più fitta, precipitano in inaspettate voragini. Le cascate sono centinaia, spettacolari sia nel salto che nel panorama che le circonda. Fra quelle che abbiamo visto, segnalo la più scenografica di tutte: 120 metri di salto in una voragine senza fondo. Per raggiungere il “punto di vista” migliore si percorrono sentieri affondati fra una vegetazione talmente lussureggiante da sembrare finta. Decidiamo anche di visitare Wat Phu. Si tratta delle rovine di un tempio khmer sull’altro lato del Mekong, in una delle poche aree Laotiane della costa ovest. Fino a poco tempo fa era raggiungibile solo con un traghetto. Oddio: chiamarlo traghetto è un po’ eccessivo: due canoe unite da un tavolato, adattate al trasporto di piccoli veicoli. L’imbarco non è un’impresa banale perché le chiatte non raggiungono la riva. Occorre percorrere un centinaio di metri di spiaggia, salire su una zattera e, da questa, salire sull’imbarcazione. Questa piccola impresa però non è più indispensabile da un paio d’anni. A Pakxe è stato aperto il terzo “ponte dell’amicizia” fra Laos e Thailandia. Perciò basta seguire la indicazioni e si attraversa il fiume in pochi minuti. Per visitare Wat Phu più comodamente, decidiamo di trasferirci a Champasak, a una decina di km dalle rovine.

Visto che c’è qualche dubbio sulla strada da percorre, traccio la rotta usando Google Map. Lo faccio in fretta, senza notare che la lunghezza risultante è di 73 km invece dei poco più di venti che indicherebbe la mappa, ma non mi preoccupo: è un percorso molto breve. Peccato che la traccia che ho caricato faccia un lungo giro oltre le colline su una fetentissima pista, coperta da uno spesso strato di polvere rossa. Inoltre è solcata da profondi fossi lasciati dai camion impantanati nella stagione umida. E’ inutile cercare di restarne fuori: la “cresta” fra un fosso e l’altro è larga meno di una spanna. A parte la tonnellata di polvere che respiriamo e qualche passaggio tecnicamente un po’ complicato (gomme da fuoristrada indispensabili), è un bel modo per rendere interessante un breve trasferimento. Ma Anna si diverte molto meno, perciò cerco di farmi perdonare: albergo carino “vista fiume”, stanza elegante e immediata visita alle rovine di Wat Phu.

Molto belle. Unico consiglio: evitate di visitarle a mezzodì, come abbiamo fatto noi. L’ultima salita comporta un paio di centinaia di scalini irregolari, alti ed esposti ad un sole implacabile. Una volta in cima però si gode di una vista impagabile e di una notevole frescura. Prendiamo la visita come una seduta di allenamento prima della visita ad Angkhor…

Dopo Wat Phu però, non ci resta che affrontare la Cambogia.

Partiamo la mattina presto, torniamo a Pakxe sulla strada giusta (23 km, lisci e confortevoli) e imbocchiamo la solita n°13, che stiamo seguendo da Vientiane. Oggi dobbiamo percorrere circa 450 km, attraversare la frontiera Cambogiana e raggiungere Kratije. E’ giovedì: il programma è quello di arrivare a Senmonorom, sede del progetto Mobile Clinic del CIAI, venerdì mattina, in modo di vistare l’ospedale, un paio di villaggi e capire il lavoro sul “field” fra venerdì e sabato. Poi andremo a Phnom Penh per avere un supplemento di informazione all’ufficio centrale. Ma tutto questo lo sapete già.

Il corso del Mekong, in questo tratto, si allarga e dal fiume si elevano centinaia di isole. Un vero arcipelago: “le 4000 isole”. 4000 mi pare un numero eccessivo, ma ce ne sono moltissime.

Breve digressione: è dall’ingresso in Laos che viviamo una strana realtà: nelle campagne la popolazione vive in case tradizionali, costruite su palafitte: alcune poverissime, altre addirittura sontuose. Nei paesi invece, le case sono in muratura, costruite in lunghe file ai lati della strada. Sotto hanno un negozio e sopra, suppongo, l’appartamento dei proprietari. La stranezza è che non si capisce i “negozi” cosa vendano. A volte c’è una cassetta di frutta o una macchina per cucire, altre volte qualche tavolo e un televisore sempre acceso. A guardarli così, dalla strada, potrebbero sembrare un fruttivendolo, un sarto o un ristorante. Il problema è che mischiati agli attrezzi della professione ci sono letti (occupati) mobili di casa, altarini agli antenati, quadri con immagini di famiglia, suppellettili varie. Perciò viene sempre i dubbio che la frutta, la macchina per cucire o tavolini siamo per “uso personale”.Aggiungete che, verso sera, tutta la famiglia cena, chiacchiera, si lava e poi dorme nel negozio. A volte senza neppure abbassare la serranda. Perciò, se devi comprare un po’ di frutta, non sai mai se stai entrando dal fruttivendolo o a casa di qualcuno.

Ci fermiamo a fare benzina. Mentre stiamo sgranocchiando qualcosa, arrivano tre o quattro pullman che sembrano usciti da un cartone animato giapponese. Double decker dalla linea spaziale, coperti da coloratissime illustrazioni di fiori, pupazzetti, arcobaleni, stelle, e chi più ne ha ne metta. Si fermano in bell’ordine di fronte ai Laotiani stupefatti: chi scenderà? Mazinga? Candy Candy? I Gormiti? Le porte automatiche si aprono e, in uno sbuffo di vapore gelido, sulle le note di non so quale canzoncina (ad un volume assordante), escono un paio di centinaia di insegnanti Thailandesi in gita.

Sembrano bambini: toccano tutto, comprano tutto, mangiano tutto. Ci chiedono di tutto e si fanno centinaia di fotografie con noi. Ne caccio alcuni che ci si stanno arrampicando sulla moto per avere un ricordo più coinvolgente. Sono simpatici e rimediamo anche qualche invito a cena, che non onoreremo. Appena si distraggono, ce la filiamo alla chetichella e proseguiamo fino alle cascate: l’unico salto in tutto il corso del Mekong. Non sono le cascate Vittoria ma fanno del loro meglio per sembrarlo: direi che sembrano un modello in scala. Mentre siamo lì che prendiamo un po’ di fresco ecco che ci raggiungono i Thailandesi di prima. Salutiamo tutti con la solita serie di banalità: anche voi qui? Che bello rivedersi dopo così poco…

E scappiamo verso la frontiera cambogiana.

La raggiungiamo nell’ora più calda del posto più caldo del pianeta. Per prima cosa dobbiamo sperare che i documenti, rappezzati dopo l’insuccesso vietnamita, siamo accettabili dalla dogana. Ovviamente guardano tutto con molto sospetto. Cerco di spiegare il problema e passo il biglietto con il telefono, il nome e le note del poliziotto di Nam Chan. E’ tutto scritto nell’alfabeto locale perciò spero non ci sia scritto “fucilate immediatamente quest’uomo: è una spia”,Non mi fucilano e preferiscono telefonare. La discussione ai due capi del filo è abbastanza pacata. L’impiegato davanti a me non ha la faccia contenta, ma decide che “si può fare”. Ritira i foglietti e considera i documenti in ordine (risulta che io, Anna e il veicolo siamo usciti dal Laos una settimana fa, 2000 km più a nord e in direzione di un altro paese), ci da un foglietto da consegnare al controllo passaporti e ci lascia andare. Grazie!

Andiamo all’ufficio passaporti. Ho sempre considerato la posizione in cui viene messo lo sportello come indicativa della stato di democrazia di una nazione. Cito due esempi. Più di vent’anni fa, in Libia, andai alla polizia di Tripoli per far vidimare il passaporto. Gli sportelli erano a meno di 60 centimetri da terra. Il contrario in Giordania: alla frontiera gli sportelli erano ad un metro e settanta da terra. Per far timbrare il passaporto bisognava buttarlo dall’altra parte senza vedere che cosa ne avrebbero fatto. Ogni tanto qualche passaporto “processato” veniva ributtato di qua. Il vantaggio di essere alto mi procurò un grande successo popolare: tutti mi chiedevano di tenere d’occhio il loro passaporto.

Gli sportelli dell’ufficio passaporti Laotiano sono a circa 80 cm da terra. Se stai in piedi, lo sportello si trova ad un’altezza improponibile. Molto più comodo sedersi o stare in ginocchio. Stare in ginocchio mi pare un eccesso di deferenza, perciò mi siedo a terra. L’impiegato controlla i passaporti e mi chiede un dollaro per il timbro, ciascuno. Gli dico che del suo timbro posso farne tranquillamente a meno. Lui risponde che il timbro è obbligatorio. Gli replico che, se è obbligatorio, lo metta pure, ma io non pago: sono già uscito dal Laos una volta, e il timbro (è lì da vedere) me l’hanno messo gratis. Lui attua la solita tecnica: allontana i passaporti quel tanto che mi rende impossibile riprenderli, e si chiude in un ostinato silenzio. Allo sportello più in là, si ripete la stessa storia con dei ragazzi che stanno entrando: 1$ per il timbro, 1$ per il modulo, 1$ per…

Aspetto un po’ cercando di rendergli il lavoro impossibile, ma ci sono solo io e lui può aspettare anche fino a domani. Pago i 2 dollari, augurandogli di doverli spendere tutti in medicine.

Passiamo dalla parte Cambogiana. Qui gli sportelli sono ad un’altezza ergonomica, ma la richiesta di “1$” raggiunge livelli di sofisticazione assoluti. 1$ per il modulo sullo stato di salute, uno per la misurazione della temperatura corporea, uno per l’immigration form, uno per il timbro di entrata e un altro per un foglietto da consegnare al piantone, una volta fatto tutto il resto. 5 dollari a testa. Sotto gli occhi degli ufficiali, che evidentemente hanno la “mezza”.

Usciamo più poveri e puntiamo verso Kratije. La strada costeggia il Mekong, come sempre. Il primissimo tratto è mal messo, tutto il resto (200 e rotti chilometri) alterna, in maniera regolare, duecento metri di asfalto e cento metri di sterrato, più un certo numero di buche messe, per spirito di giustizia, un po’ dovunque. Ho caldo e sono stufo, perciò vado senza riguardo e il viaggio si fa piuttosto faticoso. Riusciamo a pranzare vicino a una banca, dove cambiamo un po’ di dollari in valuta locale scoprendo ben presto che è del tutto inutile: qui si paga TUTTO in dollari. La valuta locale ha solo la funzione degli spiccioli. Arriviamo a Kratije che c’è solo il tempo di trovare un albergo e fare un minimo di spesa per cena. L’albergo sembra quasi lussuoso, visto da fuori. All’interno è quantomeno sconcertante. C’è anche il televisore, che dopo tre minuti di funzionamento passa al bianco e nero, dopo altri tre minuti diventa tutto virato in verde, con l’audio non sincronizzato: un’ esperienza psichedelica. La moto ce la fanno parcheggiare dentro, davanti ad una stanza, occupata, del piano terreno. Domani dobbiamo raggiungere Snoul e poi Senmonorom, la nostra meta. Ci sono circa 100 km sulla strada principale e 120 su una secondaria, lungo l’ennesimo confine con il Vietnam. Le informazioni sull’ultimo tratto sono quanto mai variabili: da “strada più in forma della Cambogia” a “pista che può mettere in difficoltà anche i più smaliziati rough riders”. Per fortuna la prima versione è quella vera. Finché resiste in queste condizioni, la strada per Senmonorom è quella in migliori condizioni di tutta la Cambogia. Forse perché e nuova nuova…

Arriviamo a Senmonorom venerdì mattina e ci fermiamo tre giorni. Poi dobbiamo raggiungere Phnom Penh per prendere contatto con l’headquarter del CIAI. La strada per Phnom Penh è lunga ma non difficile, immersa in una ininterrotta risaia. Ci fermiamo per fare uno spuntino in una località famosa per le tarantole fritte. Se ci passate la riconoscerete senz’altro: c’è il monumento alla tarantola. Le tarantole cucinate fanno bella mostra (è una formula retorica: secondo me fanno veramente schifo) di sé impilate su vassoi, ma bancarelle e ristoranti ne hanno qualcuna viva “al guinzaglio” per dimostrare che si tratta di merce fresca e nostrana. Ce ne andiamo un po’ nauseati: le cavallette fritte hanno un aspetto appetitoso, ma i ragni pelosi…

Arriviamo a Phnom Penh affaticati e affamati. Durante i giorni di sosta, fra contatti e interviste, ci avanza mezza giornata per una visita alla città. Interessante, anche se, dal punto di vista monumentale non c’è un granché. Il palazzo reale è piuttosto deludente e i templi sono tutti piuttosto recenti. Colpisce la quantità di stranieri, in gran parte appartenenti a organizzazioni internazionali che cooperano con il governo cambogiano. Ottima occasione per fare qualche interessante chiacchierata.

E viene il momento di ripartire. Risaliamo a nord (tornando al “paese delle tarantole”) e poi a est. Il viaggio non è tanto confortevole. Il tratto a nord di Phonom Penh è sterrato per una quarantina di km e per percorrerlo ci vogliono almeno due ore. Il traffico Cambogiano è piuttosto ridotto e tutto sommato ordinato. Ovviamente questa regola non vale per la capitale, che di traffico ne ha parecchio. Ma il problema che affligge il sistema di guida cambogiano è un altro: l’abitudine di inserirsi nel traffico senza guardare se arriva qualcuno. Si procede piano piano, ma senza dare MAI LA PRECEDENZA. Se poi i veicoli che si devono inserire sono due, la cosa peggiora: i due si presentano affiancati e si inseriscono sempre affiancati. Perciò, o ti fermi o ti spingono sulla corsia opposta. A proposito: in Malaysia e Thailandia si tiene la sinistra. In Laos, Cambogia e Vietnam si tiene la destra. In Cambogia, in particolare, è vietato viaggiare con “le luci accese anche di giorno”. Non resta che togliere le lampadine o “accecare” i fari durante il giorno.

Superate “le tarantole”, ci dirigiamo a ovest, verso Siem Riep: comunemente nota con il nome di Angkhor Wat. In questo tratto di strada raggiungiamo l’obiettivo che ci eravamo posti: superiamo i 20000 km di percorrenza. A Siem Riep, oltre a visitare la scuola di danza tradizionale, sostenuta dal CIAI, ci dedichiamo alla visita delle rovine.

Cosa posso dire a proposito di questo sito archeologico che non sia già stato raccontato meglio da altri?

Nulla, perciò racconto qualcosa che non ha raccontato nessuno. Cominciamo così: Siem Riep è l’unico insediamento “pesantemente turistico” della Cambogia. Centinaia di alberghi, migliaia di ristoranti, milioni di negozietti che vendono di tutto. L’ingresso alle rovine, che occupano un’area immensa, è a 5 km dal centro della città. Ci avviamo in moto in una calda mattina. Ci sono decine di bus privati, centinaia di auto e motorini a noleggio guidati da stranieri e migliaia d tuctuc.

Arriviamo alla biglietteria. 20$ a ingresso. 40$ per avere l’ingresso libero per tre giorni. Il biglietto è personale con tanto di fotografia stampata sopra, così non potete cederlo a nessuno. Parcheggio la moto e ci mettiamo in coda. Tutti gli sportelli sono occupati da comitive e bisogna aspettare che tutto il gruppo abbia fatto i biglietti. Ovviamente, viaggiando un gruppo, non si curano di stare in gruppo, perciò quando finalmente pare che tocchi a te, arriva qualche ritardatario che era al bar e ripiombi in fondo alla fila. Comunque, con il biglietto in mano, ci avviamo a prendere la moto. Ci ferma un poliziotto: è vietato l’ingresso di veicoli guidati da turisti. Gli faccio notare che almeno metà dei veicoli che stanno passando sono guidati da turisti. Niente da fare: questi sono i suoi ordini. Per avere chiarimenti devo andare alla stazione di polizia, dall’altra parte della strada. Entro e spiego le nostre intenzioni. L’ufficiale mi spiega che numerosi turisti, non conoscendo le regole del traffico cambogiano, hanno avuto incidenti e pertanto l’autorità ha deciso che non è loro permesso guidare. Rispondo che sto guidando in Cambogia da oltre 2000 km: che il permesso di guida mi è stato concesso “in tutta la Cambogia”, che le regole del traffico cambogiane sono le stesse di tutto il mondo e che stanno entrando centinaia di turisti alla guida di veicoli con targa cambogiana. Cos’è: imparano a guidare solo perché hanno una targa diversa?

La risposta è che devo capire… Queste sono le regole, non le ha imposte lui… Gli faccio presente che sarebbe stato più corretto mi avesse detto: non si può entrare senza essere alla guida di un veicolo immatricolato in Cambogia oppure su uno guidato da un cambogiano. Cioè: se non paghi qualcosa “extra” per il trasporto, non ti facciamo entrare. Involontariamente gli ho risolto il problema dandomi la risposta da solo. Sorride e dice “infatti”.

La moto potete lasciarla qua, che ve la guardiamo noi. Potete noleggiare un tuctuc proprio qua di fronte. Ne prendiamo uno bello comodo per 15$: big tour. Capiamo così che l’ingresso “libero per tre giorni” è una mezza bufala. Se hai l’ingresso multiplo, devi pagare un mezzo ogni volta che entri, perciò il risparmio è solo teorico...

Comunque il giro è entusiasmante, anche se il numero dei turisti agghindati come Livingstone è enorme. In realtà non sono tutti vestiti da “piccoli esploratori”. Le scuole di pensiero sono tre: esploratori (scarponcini “desert storm”, borraccia, pantalone tattico, zaino, cappello a protezione totale, Autan “estreme”), “rave party” (maglietta psichedelica, cappelluccio “ska”, pantaloncini floreali e flipflap, aria svagata) e “oriente=spiaggia (bikini o costume da bagno, torso nudo per gli uomini, pelle segnata da scottature, punture d’insetto, piedi nudi, strato di crema sul naso). In tutti i casi hanno un solo obiettivo: immortalarsi sullo sfondo delle rovine. Per sfortuna abbiamo fatto una lunga parte del giro con una coppia di giovani russi. Ad ogni scorcio interessante, lei si metteva in posa e lui la ritraeva decine di volte. Per ogni scatto, occorreva aspettare che lei liberasse l’inquadratura dalla sua inutile presenza.

Comunque, esclusa l’eccessiva promiscuità, il posto è bellissimo. Sono molto interessanti soprattutto i templi dello “small tour”. Non sono stati interamente “rimontati” ma lasciati (più o meno) nelle condizioni in cui si può immaginare se li siano trovati di fronte i primi esploratori europei. Enormi alberi cresciuti dentro o attraverso le costruzioni, tanto da essere inimmaginabili gli uni senza le altre. Anche vi porta in giro il tuctuc, una gran parte del percorso ve la dovete fare a piedi, salendo infinite scalinate e attraversando infinite gallerie. Ad ogni tempio, un incaricato controlla che abbiate il biglietto e che la faccia stampata sopra sia proprio la vostra. Nessun problema per bere o mangiare: a distanze prefissate ci sono decine di ristorantini (carissimi).

Riepilogando: facciamo il big tour (i templi più grandi) e lo small tour (quelli più piccoli o più nascosti): calcolo di averne vistati almeno 20. Non ci facciamo mancare neppure il “sunrise” ad Angkhor Wat. Sveglia alle 5, ingresso al tempio alle 5,30. Diecimila persone girate tutte dalla stessa parte, diecimila flash che cercano di aiutare il sole a fare il suo lavoro.

Ci avanza tempo solo per fare un buon pranzo e la manutenzione della moto. Le gomme si consumano rapidamente e faccio un po’ di fatica a calcolare se dureranno fino alla fine: mancano ancora almeno 2500 km. Il resto della meccanica va benissimo: il nuovo bullone che tiene assieme motore e telaio, regge perfettamente e non si allenta, nessun consumo di olio, nessun consumo d’acqua. Do un’occhiata al filtro dell’aria: con tutta la polvere che ci prendiamo… Sotto la sella c’è un notevole strato di polvere rossa, ma il filtro è quasi perfetto.

E si parte anche da Siem Riep… Siamo sempre più vicini alla fine del viaggio.

Devo ammettere che siamo “un po’ stanchini”, come disse Forrest Gump. Ma dobbiamo affrettarci: manca poco a Natale e dobbiamo ancora visitare la Camillian House di Bangkok…

Anna & Fabio

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