SESTO DISPACCIO. CHENNAI. CESVI

5 novembre 2012

Chennai. CESVI.

Nell’ultimo racconto di viaggio, ho cercato di prevenire la scontata sensazione di confusione che deriverà da questo secondo rapporto di “visita”, messo di seguito a quello sull’intervento di Project for People a Kolkata.

Le due visite sono avvenute nello stesso “intervallo” di viaggio. Sono entrambe in India, sono separate da 4 giorni di trasferimento. Sono state molto diverse. La deontologia professionale (si dice così, anche se io non sono un professionista) consiglia di non fare confronti e lasciarli, semmai, al lettore. Ma qui vale la pena di fare un confronto fra le due diverse realtà perché danno, con una maggiore profondità, la visione di come si muove l’India. Il classico effetto stereoscopico: due punti di vista leggermente diversi, sovrapponendosi, permettono di vedere la “terza dimensione”.

Perciò cerco di dare la mia impressione su due diversi teatri. Kolkata: città “matura”. Cerca nuova forza assorbendo le aree circostanti. Dilaga, assorbe, corrompe. Milioni di persone tarlano le rovine della dominazione inglese alla ricerca di uno sbocco di vita.

Chennai. La classica città “second-tier”. Le città di seconda linea, quelle che stanno facendo il miracolo economico indiano. Abbatte e ricostruisce con un cantiere infinito. Seleziona, sfrutta e butta via. E’ durissima con chi non ce la fa. Ma lo strizza fino all’osso. A differenza di Kolkata, che abbiamo visitato per la prima volta, Chennai la conosciamo abbastanza bene. La stessa, disgraziata coincidenza, ha voluto che l’avessimo scelta anche quattro anni fa per il trasferimento della moto in Malaysia. Stessa tragica avventura, stesse inspiegabili lungaggini, stesse attese lunghissime. Stesse settimane in giro per la città da una stazione di polizia all’altra, fra uffici, dogane, carpentieri, agenzie di viaggi, treni, tuctuc, supermercati e negozietti. Ma abbiamo trovato molte differenze dal punto di vista paesaggistico: spuntano palazzi e grandi alberghi più o meno ovunque. Ha aperto la concessionaria Porsche, si ventila l’apertura di una concessionaria Rolls Royce. E’ in apertura un albergo “settestelle”. Gli skip-over (i viali sopraelevati, che se li imbocchi non sai mai dove andrai a finire) sono triplicati. Aprono sempre nuovi ristoranti. Saravana Bhavan ha aperto ormai 26 succursali solo a Chennai e altre 20 in giro per il mondo (se vi capita andateci a mangiare: si mangia molto bene e si spende poco. Preferite quelli che hanno la sala A/C: vi danno anche le posate). Gli slums sono sempre ampiamente rappresentati, ma meno visibili.I lavori di abbellimento e modernizzazione li hanno relegati lungo i fiumi, nelle vie secondarie, lungo i binari delle ferrovie, lungo la parte sud della spiaggia, dove i taxi non vi portano.

Ora provo un’analisi molto rozza: a Chennai si costruisce, si mangia, ci si rilassa fumando un “beedi”. Chi si occupa della produzione delle materie prime che permettono queste attività, e come sta?

Male. Malissimo.

E di questi si occupa il CESVI appoggiando iniziative e ONG locali. Fabbricanti di mattoni, lavoratori del riso, pescatori, stanno male. Ma quanto e perché?

Cominciamo dai fabbricatori di mattoni. Chiarisco subito due cose. La prima è che abbiamo visitato le fabbriche in un periodo di “morta”. L’arrivo del monsone rende tutte le attività all’aperto impossibili e i lavoratori stanno tornando tutti a casa. La seconda è che abbiamo potuto visitare solo quelle il cui proprietario ci concedeva il permesso. Perciò si tratta delle realtà “migliori” quelle più vivibili o peggio, quelle il cui proprietario non si sente nè in colpa nè in difetto.

Nella periferia settentrionale di Chennai ce ne sono circa 300. I mattoni si fanno a mano secondo una antica tecnica ormai da noi in disuso. I lavoratori si alzano alle 2 del mattino (forse è meglio dire “di notte”) e preparano i mattoni a mano mettendo l’argilla in formelle. Le formelle sono singole o matrimoniali. Perciò si producono uno o due mattoni per volta. All’alba la produzione giornaliera deve essere completata perché il sole asciughi l’argilla rendendola sufficientemente solida perché i mattoni siano trasportati nella fornace. L’aspetto della fornace è singolarmente simile a quello di certe vecchie navi da guerra. Un massiccio ovale allungato, alto circa 4 metri sormontato da un’alta ciminiera nera e delle feritoie regolari lungo i lati che paiono gli sportelli per i cannoni. Lo “scafo” è diviso in un certo numero di sezioni, ognuna della quali contiene 25000 mattoni che vengono disposti in maniera particolare per creare una serie di camere in cui passi il calore generato da due forni. Il tutto viene coperto di terra e la ciminiera viene spostata di sezione in sezione per favorire il “tiraggio”. I mattoni cuociono a rotazione. Prima una camera, poi quella successiva. A cottura completata, ogni camera viene dissotterrata, i mattoni sono selezionati e ammucchiati da parte.

Perché ve lo racconto?

Perché è fatto tutto a mano. Perché sul forno si cammina a piedi nudi, Perché la temperatura esterna, anche senza l’aiuto del forno, supera allegramente i 40 gradi. Ma questo non è che il contesto. Molto più interessante del sistema di lavoro, di reclutamento, di vita e di pagamento.

I lavoratori vengono reclutati nell’India profonda, a centinaia se non migliaia di km da qui. Vengono reclutati con la famiglia. Vengono reclutati con uno strano sistema retributivo. Semplifico con un esempio. Il reclutatore raggiunge il villaggio “X”. Ha il compito di trovare un certo numero di famiglie. Offre una paga che si aggira, per tutta la famiglia, sulle 20000 rupie a stagione (circa 7 mesi di lavoro). Indicativamente la cifra corrisponde a qualcosa meno di 300€. Cioè alla cifra giornaliera di 1,5€. Cosa offre il datore di lavoro? Trasporto, una parte del vitto e l’alloggio. Il trasporto è il camion su cui vengono caricate le famiglie e le loro povere cose. Il vitto è rappresentato da qualche kilo di riso rotto scartato dalle risiere. Ma la punta di diamante è l’alloggio. Si fa un muretto di mattoni di scarto, ammucchiati senza alcun legante. Con questa tecnica si riesce a metterne uno sopra l’altro al massimo una decina. Perciò il muretto raggiunge a malapena il metro d’altezza. Da un lato si lascia una piccola apertura e sopra ci si ammucchiano delle foglie di palma. Rifatelo per 30 o 40 volte e otterrete il quartiere residenziale dei lavoratori. La misura è standard: 12 piedi per 16. Cioè due metri per tre. Il pavimento è quello fornito dalla natura. Servizi zero, acqua potabile zero, mobili & elettrodomestici zero. Unica concessione: rigida separazione castale. In questi abituri vivono intere famiglie per 7 mesi all’anno. Donne incinte, bambini piccoli, anziani.

Attenzione perché il bello viene solo ora: l’importazione di lavoratori di origine lontana ha tutta una serie di vantaggi. Non conoscono nessuno, vengono da realtà tribali, non parlano la lingua che si parla nella zona di lavoro (e non sanno l’inglese, che è la lingua franca) non sanno leggere, ne scrivere, ne fare di conto. Perfetti!

Perfetti perché accettano il contratto per le 20000 rupie di cui sopra, senza rendersi conto che il contratto non è a tempo, ma “a mattone”.

Insomma: per la bella sommetta di 20000 rupie si impegnano a produrre nella stagione di lavoro, un numero di mattoni impossibile. Perciò succede semplicemente questo: lavorano 7 mesi e non fabbricano il numero di mattoni corrispondente alla paga pattuita. Non hanno onorato il contratto. Non resta che restituire la differenza o tornate l’anno successivo lavorando gratis per un certo periodo per “saldare il debito”. Naturalmente, quando si accorgono che non lavorano a stagione ma a cottimo, coinvolgono tutta la famiglia: anche un bambino piccolo può produrre la sua quantità di mattoni. Aggiungo che, non sapendo fare di conto, è molto difficile che riescano a controllare i conti… Ma questa è l’unica possibilità di sopravvivenza che hanno.

Ovviamente è assolutamente illegale e altrettanto assolutamente alla luce del sole: una fabbrica di mattoni che occupa 30/70 famiglie non la puoi nascondere sotto il letto. Più o meno la stessa cosa vale per le fabbriche di riso. Stessi lavoratori sradicati, stese paghe da fame, stesso (studiato) malinteso fra il pagamento a tempo e a cottimo. Se ci sono differenze, stanno solo nel tipo di lavoro e nel fatto, non secondario, che il riso è commestibile e i mattoni no.

Perciò le stanze sono perloppiù in cemento (perenni, perciò di una sporcizia indescrivibile) e si può cuocere un po’ di riso ogni tanto. La lavorazione, tutta senza l’ausilio di macchine, è di una rozzezza impressionante. Il riso viene ripulito dallo scarto immergendolo in una serie successiva di vasche d’acqua. La pula viene a galla e il riso va a fondo. Poi viene fatto asciugare e immerso nella vasca successiva. Quando le vasche non sono impegnate, si usa l’acqua per lavare i panni e le persone.

Alla fine si riempiono sacchi da 75 kili (che sono la vera misura della produttività) il cui contenuto viene poi selezionato a macchina e confezionato. Il lavoro alle macchine è sempre da forzati, ma le paghe sono più alte. Non riesco a immaginare nessun delitto, per atroce che sia, che possa meritare come pena una vita come queste.

Cosa fa il CESVI in questo contesto? Da una parte cerca di sottrarre i bambini, almeno per qualche ora al giorno al tipo di vita che sono costretti a fare. Vicino alle riserie e alle fabbriche di mattoni ha aperto piccole scuole e asili che se ne prendono cura, dando loro un paio di pasti, un tetto sulla testa e qualche ora di scuola, e cerca di spingere i proprietari delle fabbriche ad accettare condizioni di vita appena più umane. Dall’altra parte cerca di affiancare i lavoratori nella difesa dei loro interessi.

Ovviamente non è possibile ottenere granché con lo scontro diretto. Molto meglio un sottile lavoro che si regge sulla capacità di relazione, sul coinvolgimento delle autorità, sul tentativo di ammorbidire i datori di lavoro, sull’aumento della coscienza sociale dei lavoratori, sulla promozione della cultura infantile come mezzo per fornire cultura a tutta la famiglia e sulla promozione della posizione femminile.

Difficile, difficile, difficile.

Un'altra situazione in cui ci rendiamo conto che rimboccarsi le maniche e mettere mano alla pala o alla scopa non è quello che serve. Al massimo può servire per scaricarsi la coscienza. Troppo facile: perché un occidentale dovrebbe essere chiamato per fare qualcosa di così semplice? La cooperazione è una cosa difficile. Richiede skills molto mirati e specializzazione. Bisogna sapere, capire, avere le soluzioni. Non è una cosa per principianti. Principianti come noi.

L’altro gruppo sociale è quello dei pescatori.

Le comunità di cui si occupa il CESVI sono quelle che si trovano nella zona di Pondicherry, antica colonia francese a poco più di 100km a sud di Chennai.

100 km sono pochi, ma se li calcolate in ore di viaggio la cosa cambia aspetto: da Chennai ci abbiamo messo quasi 5 ore. Fino a Pondicherry la strada è decente, poi ci si addentra nelle solite paludi, la strada si fa fangosa e sempre più stretta. Fino a quando si arriva ai villaggi dei pescatori. La comunità è stata duramente colpita dallo tsunami. Il numero degli orfani è rilevante e interi villaggi hanno dovuto trasferirsi dalle isole più esterne a quelle più riparate.

Ovviamente nel momento del disastro gli aiuti sono arrivati in massa e con poco coordinamento. Perciò il primo problema è stato quello di organizzarli sul territorio e soprattutto nel tempo. Infatti, dopo qualche mese gli interventi di emergenza sono finiti e si è tornati alla realtà pre-tsunami. Qualche problema in meno (sono state costruite parecchie case in cemento in località più riparate molte delle quali sono arrivate quando la popolazione era già stata costretta ad emigrare) qualche problema non risolto (i nuovi villaggi rimangono senza acqua potabile, che arriva un paio di volte alla settimana a pagamento grazie ad una vecchia autocisterna) e un po’ di problemi nuovi, generati dal trasferimento e dall’arrivo degli aiuti (i soliti problemi castali e culturali, alcoolismo e generale straniamento). La differenza fondamentale fra le comunità delle riserie e delle fabbriche dei mattoni è che mentre quelle sono comunità deportate, che abbiamo visto nel momento dello sradicamento, quelle dei pescatori le abbiamo visitate nel loro luogo di origine: quello da cui, forse, vorrebbero andare via. Per finire dove?

Anche qui il lavoro è al disotto della soglia di umanità. I dalit non possiedono, come al solito, nessun mezzo di sopravvivenza. Non resta loro che imbarcarsi su barche altrui o affittarle. Pare che non siano “abilitati” o “adeguati” a condurre barche a motore. E questo, dopo un trasferimento sulle isole di seconda linea, crea altre difficoltà.

Le donne si dedicano, oltre alle tradizionali attività, alla pesca dei gamberi, che si svolge così. Si sta nell’acqua fino al collo, tenendo fra i denti i manici di una borsa di foglie di palma. Si agitano le mani, sperando di incocciare in un gambero di passaggio. Lo si afferra e lo si infila nella stretta bocca della borsa. E via così per tutto il giorno.

Per questo, nel lavoro del CESVI, c’è stato un grosso impegno nel dare potere alle donne: le nuove case sono intestate alle mogli (una rivoluzione totale) e il microcredito funziona soprattutto in linea femminile: le donne sono affidabili e pragmatiche.

C’è anche un risvolto interessante nelle attività scolastiche. Sono state attivate scuole e anche doposcuola in cui i ragazzi e le ragazze appartenenti alle classi più disagiate, che difficilmente possono frequentare continuativamente, sono assistiti nello studio dai ragazzi delle classi superiori. Inoltre c’è una interessante attività collaterale: in ogni scuola è nominato un “consiglio dei ministri”. Gli allievi più intraprendenti hanno la responsabilità di ogni settore: c’è il ministro della sanità che si occupa della pulizia della scuola, quello dell’istruzione che si occupa delle qualità dell’insegnamento, quello delle finanze che si occupa dei fondi. Questi ragazzi e queste ragazze devono presentare rapporti, progetti e problemi e rappresentarli al consiglio del villaggio o alle autorità preposte. Con il compito di migliorare la qualità della scuola. Sono arrivati a chiedere la sostituzione di insegnati insufficienti, a controllare che le pulizie fossero fatte con attenzione, a controllare che le condizioni igieniche fossero adeguate a quanto era stato loro insegnato. La cariche sono elettive e il compito che si assumono è davvero duro. Sono stati capaci di fare un rapporto dettagliato delle loro attività senza troppe difficoltà e con una notevole coscienza della loro funzione. Mica male.

A tutto questo lavoro, si aggiunge un grosso problema: sembra che l’arrivo degli aiuti esterni, oltre ad essere necessari per le poverissime comunità locali, rappresenti un ottimo alibi per la classe dirigente locale, che si dimostra attiva nel chiederli e estremamente reticente a subentrare, nel momento in cui gli aiuti stranieri scemano. Questo sta portando ad una riduzione delle attività: su oltre 25 centri per bambini aperti, al momento sono attivi meno della metà. Le palazzine ci sono, ma sono chiuse e vuote. Il grosso rischio è che in questo modo il filo di fiducia che si è creato si rompa e si ritorni alla situazione precedente agli aiuti, aggravata dalla delusione. I ragazzi della sede di Chennai (tutti Indiani) fanno del loro meglio. Noi stiamo facendo del “nostro” meglio?

Nelle lunghe chiacchierate durante i trasferimenti e nelle riunioni presso di loro, ci hanno raccontato di realtà di cui si occupano, anche peggiori. Sapete cosa sono i “beedi”? Forse si: sono quelle strane sigarette, fatte di nonsocchè, tipiche dell’India.

Si fanno a mano, una per una. La produzione è immensa e il numero di lavoratori coinvolti è altrettanto immensa. In questo caso, in giro per i villaggi vanno degli intermediari. Passano dal lavoratore la mattina presto e gli affidano il compito di produrre 1000 beedi per la sera. Un bel contratto: non so a quanto vada il singolo beedi al produttore, ma immagino che per 1000 beedi si tratti di qualche decina di rupie.Il budget per la sopravvivenza giornaliera: anche oggi si mangia! A questo punto occorre solo produrli per sera. Quanto ci può volere per fare un beedi? Non lo so, ma in 10 ore ci sono 36000 secondi. Immagino che, se ci mettete 36 secondi per ciascuno, ce la fate. Se ce ne mettete 40, la sera vi mancheranno circa 100 beedi. Finirà che perderete il lavoro: non vi resta che correre dal vicino a farvi prestare un centinaio di beedi fino a domani. Lui ve li presta, ma domani ne vuole indietro 120 (un minimo di interesse, che diamine!). Così onorate il contratto, ma domani dovrete produrre 1120 beedi. Come fare? Non smettete mai, né per mangiare, né per andare al bagno, né per sgranchirvi le gambe. Coinvolgete figli, nonni, eccetera. Non se ne esce più e si contraggono infinite malattie professionali: reni, articolazioni, vista…

Lasciamo l’India quasi con sollievo.

Che è una stupidaggine, me ne rendo perfettamente conto. Se mi basta non vedere la povertà e lo sfruttamento per sentirmi meglio vuole dire che mi basta girarmi dall’altra parte.

A parziale giustificazione, posso dire che forse ho nuotato per troppo tempo sotto il livello del dolore e ho bisogno di prendere un po’ di fiato.

Mi rendo conto di aver trascurato tutti i dati che mi sono stati forniti con dovizia di scuola anglosassone. So quanti sono i bambini che hanno avuto assistenza ortopedica, oppure oculistica. Quanti frequentano la prima classe e quanti la 7° (facile da ricordare: solo 2). Quali sono le malattie che colpiscono la donne e in quali percentuali. Come è organizzato il lavoro di “lobbing” contro il “bonded” labour. So anche quali sono i problemi che si devono risolvere nei rapporti con le autorità, che per questioni relazionali non stanno scritti nelle relazioni.

So che occorre fare di più, soprattutto dal punto di vista del lavoro culturale e sociale: la cultura è la sola leva che può scardinare questi meccanismi.

La cultura produce consapevolezza, salute, ricchezza. Contribuiamo a tenere aperte tutte le scuole. Il resto verrà da se.

Un ciao che spera nel futuro.

Anna e Fabio.

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