DODICESIMO DISPACCIO. LE CONCLUSIONI

L’ultima puntata l’ho conclusa con un arrivederci.

Non era indirizzato a persone ma alla nostra compagna di viaggio, che stava lì, su una pedana di legno, avvolta in una pellicola di plastica.

Guardandola avevamo la netta sensazione che facesse fatica a respirare, abituata com’è a stare all’aria aperta.

Per tutti quelli che soffrono, come me, a vedere una moto inattiva, invio qualche rassicurazione: è stata regolarmente imbarcata e il suo arrivo a Milano è previsto per il 15 febbraio.

Oggi perciò preferisco pensare che si sia riposata per un mese e che salterà fuori dalla sua cassa più in forma che mai.

Anche questa è fatta.

Mi ero ripromesso, risolto tutto il resto, di dare una conclusione a quest’avventura.

Il viaggio, ovviamente, è “tecnicamente” già concluso.

La conclusione di cui parlo è concettuale. Vorrei rispondere a una domanda sgradevole ma essenziale, che si può riassumere in un: e allora?

Dopo che avete dato del vostro meglio per spiegare un complicato concetto, capita spesso che qualcuno vi geli con un crudele: e allora?

Perciò cerco di anticipare la domanda, anche se so che finirò col deludere una parte dei lettori. Il viaggio (se preferite l’avventura, l’impresa) è stato “normale”. Normale nel senso che, se accettate di mettervi in una situazione del tutto “anormale”, tutto ciò che ne segue è prevedibile, perciò accettabile. Cioè appunto, “normale”.

Le difficoltà erano prevedibili (e perciò normali) gli incidenti erano inevitabili (normali), strade brutte, traffico impazzito, mancanza di cibo e di sicurezza, cattiva benzina, poco sonno, molta stanchezza, dogane esose, poca pulizia, molte pulci, erano impliciti (normali).

Se devo indicare qualcosa di “fuori dal normale”, posso citare la fortuna e una serie infinita di nuovi amici.

E’ capitato (prevedibilmente) un po’ di tutto e ne siamo usciti molto più poveri, ma senza danni fisici, sempre molto uniti e pieni di voglia di viaggiare.

Tutto qua.

Spero che questa conclusione non sia deludente. Per noi, che siamo al trentesimo viaggio in moto (e al terzo di quest’impegno) è un’ottima conclusione: invecchiamo ma siamo sempre in sella (brutto gioco di parole, vero?).

Passiamo all’altro lato: quello della charity.

Non è la prima volta che colleghiamo un viaggio ad attività umanitarie. Due anni fa nel viaggio Italia-Mongolia-Sud Africa, abbiamo sostenuto una ONG e due progetti, uno in Tajikstan e uno in Zimbabwe.

Già allora la nostra esperienza come testimoni e come “raccoglitori di fondi” è stata entusiasmante.

Oddio. Forse il termine “entusiasmante” è inadeguato, anche se non del tutto scorretto.

Mettiamola così: la raccolta fondi, anche se ha avuto risultati inferiori alle nostre previsioni, è stata senz’altro entusiasmante. La conoscenza dei progetti e, soprattutto, dei problemi che i progetti tendevano a risolvere, è stata…faticosa, sconvolgente, illuminante, interessante e, forse, anche entusiasmante.

Tutto questo per dire che in quest’ultimo viaggio, con visite a sei progetti (dovevano essere otto, poi sette), eravamo preparati a tutto. Abbiamo trovato tutto quello che ci aspettavamo, arricchito dalle differenze fra progetti, ONG, nazioni e culture.

Tutte notizie che, mi auguro, abbiate già letto nei rapporti che abbiamo inviato a ogni visita.

Ora, come dicevo, vorrei fare un passo in più e tirare qualche conclusione.

Conclusioni che mi vengono abbastanza facili. La prima riguarda le condizioni dei paesi in cui sono situati i progetti di charity.

Non si tratta di paesi poveri in senso assoluto, anzi, si potrebbero considerare ricchi, o almeno in possesso di risorse adeguate a risolvere i problemi di povertà e disagio che li affliggono.

Il tratto comune è quello che hanno tutti “qualcosa che non funziona”. C’è sempre un granello di sabbia che impedisce alla “macchina sociale” di funzionare.

Il granello è di origine diversa (corruzione, razzismo, egoismo, divisioni interne non risolte) ma il risultato è sempre lo stesso: la macchina si blocca e qualcuno ne paga le conseguenze.

Qui si apre il discorso sulla distinzione fra “charity” e “cooperazione”. Perciò vi faccio partecipi del principio che mi è stato pazientemente insegnato e che ritengo fondamentale: la charity tende a ridurre il problema a un fatto episodico.

Mi focalizzo su un problema specifico e lo “allevio”. Ben altro obiettivo è quello che si pone la cooperazione. In questo caso il compito è rimuovere il granello di sabbia. Un lavoro molto più complesso e impegnativo, che tende a risolvere il problema definitivamente. Ovviamente fra i due tipi d’intervento, ugualmente leciti, c’è una grossa differenza filosofica. Per definizione un intervento di charity è molto meno invasivo: serve un pozzo? Eccolo.

A “pozzo scavato” la mia coscienza è a posto, l’intervento è finito, le dinamiche sociali sono intatte e non c’è nessuna invasione di campo.

Molto diverso l’intervento di cooperazione.

Per prima cosa bisogna considerare che, per una certa parte della società locale, il granello di sabbia sta benissimo dove sta. Qualcuno soffre, ma qualcun altro lucra. Inoltre nessuno, anche i reietti, ama i cambiamenti, soprattutto se imposti da stranieri ricchi, superbi e cattedratici, che spesso non hanno lasciato buon ricordo di sé.

Perciò la cooperazione dà buoni risultati solo se è davvero collaborativa.

Occorre rispettare le dinamiche sociali, essere convincenti, pazienti, dialettici, disponibili a modificare le proprie idee “piegandole” alla sensibilità locale. E dare dei risultati. Risultati che verranno valutati dalle classi disagiate, dall’establishment, dai donatori. Ognuno con la sua dose di potere, la possibilità di fare critiche o di far fallire il progetto.

Aggiungiamo che, proprio per rispettare l’indipendenza e stimolare la capacità dei paesi di completare un percorso d’uscita dai problemi “indipendente”, tutti gli interventi hanno una “data di scadenza”. Perciò occorre fare tutto con calma, delicatezza, professionalità, ma anche con tempi (e soldi) contingentati.

Un compito da fratelli maggiori, da amici. Non da benefattori.

In questo viaggio abbiamo visto all’opera fratelli maggiori (o amici) diversi fra loro. Alcuni con maggiore esperienza, denaro, cultura. Altri alle prese con problemi che parevano troppo grossi per loro. Altri ancora con uno stile che offre il fianco a qualche critica.

Ma tutti, dico davvero tutti, si occupano di compiti estremamente necessari e fanno del loro meglio.

Perciò scegliete voi a quale progetto volete aderire, quale ONG è più convincente, quale nazione vi è più simpatica, ma ricordate che le ONG ci rappresentano. Rappresentano la nostra capacità, come paesi sviluppati, di migliorare il mondo.

Rappresentano, in fin dei conti, ciascuno di noi e testimoniano, se la cosa vi interessa, la ragione per cui possiamo continuare a fregiarci del titolo di “cittadini di paesi sviluppati”.

Ecco. Credo di aver espresso le nostre conclusioni.

Ora spetta a voi tirare le vostre.

Grazie per l’attenzione.

Anna e Fabio.

1bike2people4aid/Asia Charity Report 2012/2013

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