UNDICESIMO DISPACCIO. SPEDIZIONE MOTO

Partiti da Siem Riep, dobbiamo raggiungere Bangkok dove ci attende l’ultima visita ad un progetto di charity sponsorizzato da Mediafriends.

Una tappa molto lunga: circa 600 km, con la frontiera in mezzo.

Le strade Thailandesi sono piuttosto buone, perciò ce la dovremmo fare in giornata, ma tempi doganali sono imprevedibili.

Ci presentiamo al lato cambogiano alle 10. Qualche problema di coda (facciamo la coda sulla linea giusta, ma l’impiegato ha deciso che non intende rispettare le indicazioni e decide di dedicare il suo sportello ad attività diverse. Lo scopriamo solo dopo aver fatto mezz’ora di fila) e conosciamo il mio eroe di quest’anno: un ciclista spagnolo che ha pedalato fino a qui, da Barcellona. Ha attraversato tutta l’Asia, con un lungo giro in Cina. In otto mesi ha pedalato per 22000 km. Ora gli mancano solo due giorni a 150 km al dì per arrivare a Bangkok, fine del suo viaggio. Bravissimo!

Passiamo dalla parte Thailandese: le cose sono un poco più complicate, ma nulla di terribile.

Solo all’uscita ci ferma la polizia e ci rimanda indietro asserendo che manca un timbro. Rifacciamo il giro di tutti gli uffici per quasi un’ora: era tutto in ordine. Abbiamo solo incontrato il cretino che, per regolamento, deve esserci in tutte la dogane Thailandesi. Abbiamo perso tempo “gratis”. Ora resta l’ultimo compito: fare l’assicurazione obbligatoria. Entrando in Thailandia dalla Malaysia ci sono decine di uffici che la propongono: qui non ce n’è neppure uno. Chiedo indicazioni. La polizia non ne sa nulla e solo dopo un bel po’ riesco ad aver l’informazione: troverò l’ufficio assicurativo nel primo paese a 7 km.

Nulla di più preciso. Spero che si tratti di un paese piccolo… Facciamo i nostri 7 km (in realtà sono quasi 10) e troviamo il paese. Giriamo per mezz’ora ma non troviamo ne l’assicurazione ne qualcuno che ne sappia nulla. Troviamo un ufficio assicurativo ma è chiuso da molto tempo e sulla porta c’è un messaggio scritto in thai. Incomprensibile.

Sono tentato di fregarmene a partire, ma potrebbe essere un grossa sciocchezza. Perciò esploriamo il paese a tappeto. Niente da fare. Andiamo all’ufficio della polizia turistica (“your best friend in Thailand”) ma non c’è nessuno che parli inglese (quando ti presenti chiedono “where are you going?” e la conversazione finisce lì). Alla fine capitiamo (per caso) al comando della “stradale”. Qui se la prendono più a cuore, cercano l’assicurazione e poi ci accompagnano. Si tratta, in sostanza, dell’ufficio chiuso di prima: hanno trasferito tutto qualche vetrina più in là, mantenendo l’insegna di fiorista. Chiedo l’assicurazione per 19 giorni (si può fare per 9, 19, 29 ecc) mi portano un contratto per 3 mesi. Dico che è sbagliato, visto che posso restare in Thailandia solo 15 giorni. ma la tizia risponde “doesn’t matter”. Che a lei non interessi se pago più del dovuto può anche essere vero, ma dirmelo in faccia… Comunque, a onor del vero, la cifra è irrisoria e il ritardo enorme: sono già quasi le tre e abbiamo ancora un sacco di strada da fare.

Pago e partiamo sparati verso BKK. Quando siamo a circa 80 km dalla meta, persi in una fila interminabile di camion, vediamo le indicazioni per la highway N° 7. Perfetto! Prima di arrivare in città saremo costretti a lasciarla (alle moto è vietato l’accesso in città sulle autostrade e l’uso delle sopraelevate) ma il divieto vale, generalmente, negli ultimi chilometri. Perciò via più veloci della luce! Fino a quando superiamo un’auto della polizia che mette lampeggianti e sirena e comincia a inseguirci. Ovviamente ci fermiamo. Ci fanno presente che quello che vi ho raccontato poche righe fa, vale per tutte le strade che arrivano a Bangkok, meno che per la N° 7, sulla quale il transito alle moto è SEMPRE VIETATO. E ora che si fa? Devo consegnare la patente (consegno quella internazionale) e seguirli fino alla stazione di polizia dove sarò adeguatamente multato. Partiamo. Loro davanti, io dietro. Mentre viaggiamo, si fermano un paio di volte per multare qualcun altro e mi fanno cenno di precederli fino al casello. Capisco che non è possibile filarsela all’inglese: dal casello devo passare per forza… Difatti, dopo aver distribuito le loro multe, mi superano di nuovo e mi aspettano dopo il casello. C’è un intero cordone di polizia che mi attende e mi indica da quale varco passare. Quando li raggiungo di nuovo, mi fanno una lunga manfrina sul fatto che la stazione di polizia è laggiù (si vede in lontananza), che laggiù mi faranno una multa molto salata... Sono davvero stufo. Ok: se devo pagare pagherò, purché non la tiriamo troppo in lungo: è buio e siamo attesi al Camillian Hospital ormai da ore. Non so cosa sia stato (forse Camillian Hospital è stata la parola magica), ma decidono di lasciarci andare, con la promessa che non lo faremo più. Ringrazio, ma chiedo cosa succede se mi ferma un'altra pattuglia: dall’autostrada non potremo uscire ancora per una ventina di km. Il poliziotto “capo”, disegna la piantina del percorso fino all’ospedale e mi dice di dichiarare, in caso di fermo, che di me si è “preso cura” Mr Jim (lui). Ok, grazie di tutto: siete stati davvero gentili. Ripartiamo.

Arriviamo agli ultimi 100 metri prima che sia possibile uscire dall’autostrada e rientrare nelle regole, che ci ferma un altro poliziotto, in moto. Fa la solita scena, perciò gli dico che ci ha già fermato Mr Jim. Domanda subito: avete pagato lui?

Sono stupido, ma non fino al punto di dire che non ho pagato nulla. Certo che abbiamo pagato lui! E lo dico cercando di avere l’espressione di chi ha pagato molto.

Fa la faccia scontenta di chi si è visto sfuggire un bell’incasso e ci fa segno di proseguire. Facciamo 100 metri e finalmente passiamo sulla corsia laterale, aperta alle moto, e rientriamo nelle regole. Altre due ore di traffico intenso e arriviamo all’ospedale, dove siamo davvero attesi da ore. Siamo a pezzi. Per prima cosa si va a cena, poi cominceremo a organizzare le giornate di visita.

Anche della visita alla Camillian Home ne parlo in separata sede, perciò segnalo solo che, vuoi perché la nostra interfaccia e anima dell’iniziativa è Giovanni Contarin, che rimane solidamente italiano, vuoi perché non siamo persi nella jungla, tutta la faccenda si svolge in maniera semplice e priva di asperità. Anzi, in notevole comfort. Riesco perfino a fare un salto dal parrucchiere e Dio solo sa quanto ne ho bisogno.

Unico problema, una foratura in piena città, proprio di fronte non a uno, ma ben due gommisti.

E’ la prima foratura dopo anni e anni di viaggi. L’ultima che ricordo avvenne a metà degli anni ’90. Anche quella volta condita da una notevole dose di fortuna. Al ritorno da un viaggio in Iran, scoprii un chiodo piantato nella gomma posteriore all’altezza di Bologna, a 200 km dalla fine del viaggio. Non sono neppure in grado di definire dove e come il “chiodo di Bangkok” si sia infisso nella gomma. Il Flat Free che metto nelle camere d’aria ha indubbiamente ridotto la perdita di aria e ci accorgiamo della foratura solo al momento in cui lasciamo il Camillian Hospital per raggiungere la Camillian Home.

Ho la camera d’aria di ricambio e, una volta estratto il chiodo (7 centimetri, infissi proprio al centro del battistrada), il resto dell’operazione è, tutto sommato, agevole. In mancanza di prove, tendo ad attribuire la foratura all’obbligo (per le moto) di viaggiare sulla “corsia di emergenza” dove si raccolgono tutti i detriti.

Comunque la foratura, che per pure questioni statistiche, era ormai nell’ordine delle cose, è avvenuta nel luogo migliore. Penso cosa sarebbe successo se avessimo forato in Ladakh, magari sotto la neve… Dopo qualche giorno, finita anche questa visita, ci avviamo verso l’ultimo tratto di strada. Il programma è pieno di impegni.

Da una parte dobbiamo organizzarci per la spedizione di ritorno della moto, dall’altra parte cerchiamo di rendere il rientro meno noioso.

Per il primo problema, abbiamo considerato un paio di alternative. Possiamo spedire la moto (sempre via nave, con un notevole risparmio di denaro) sia da Bangkok che da Kuala Lumpur. Il preventivo di Kuala Lumpur è decisamente più economico, anche perché se ne occupa uno dei ragazzi del motoclub BMW Malese, che lo fa senza ricarico (grazie mille).

L’obiettivo di rendere il ritorno meno deprimente lo raggiungiamo decidendo di passare le feste di Natale con la comunità Elbana che sverna a Pukhet. Perciò partiamo dalla Camillian Home la mattina molto presto. Davanti a noi c’è il problema di attraversare la città, seguendo le complicate regole del traffico locale: nessun accesso alle sopraelevate (che sarebbero molto più veloci) e l’ingresso in autostrada solo ad una certa distanza dalla città. Ci mettiamo circa tre ore ma ce la facciamo senza troppi errori. Fatto questo, che è la parte più dura, non ci restano che 500 km per raggiungere Chumpon, dove ci siamo già fermati all’andata e dove sappiamo di trovare un albergo decente ad un prezzo molto competitivo.

Seguiremo la stessa strada dell’andata, nello stesso tratto in cui abbiamo perso la pinza del freno.

Visto che da queste parti un guaio serio lo abbiamo già avuto, la cabbala vuole che la possibilità di averne un altro, sia estremamente ridotta. Siamo molto su di morale e viaggiamo ridendo e cercando di identificare il posto in cui è successo l’incidente. Non è facile riconoscerlo: viaggiamo nell’altra direzione e il paesaggio è sempre uguale. Comunque ci sentiamo dei reduci a cui ormai è capitato tutto quello che poteva succedere. Arriviamo a Chumpon tardi, giusto in tempo per la cena. Il monsone invernale si è un po’ ridotto: troviamo tempo nuvoloso ma senza pioggia.

La mattina successiva dobbiamo fare l’ultimo balzo: Chumpon-Pukhet: altri 500 km (abbondanti). Pioviggina, poi la pioggia rinforza. Questo capita perché Chumpon è sulla costa orientale della penisola di Malacca, il lato più colpito dal monsone. Appena partiti faccio benzina: una ventina di litri, giusto il necessario per arrivare a Pukhet.

Proseguiamo per una ventina di km: la pioggia continua ma non è forte e non ci mettiamo neppure le tute antipioggia. Improvvisamente la moto si spegne, in pieno rettilineo. Guadagno il bordo della strada e faccio qualche verifica. La benzina c’è, i rubinetti sono aperti, i filtri non sono intasati. Mi viene un dubbio atroce: potrebbe essere la pompa della benzina. Il guasto potrebbe essere di tre tipi, in ordine di probabilità: un problema elettrico, un problema elettronico o un problema meccanico. Per le prime due possibilità ho ampia possibilità di intervenire (anche se con un ridotta capacità tecnica): posso controllare i contatti ed, eventualmente, ho il componente di ricambio. La terza possibilità, un blocco meccanico della pompa è senza soluzione, ma estremamente improbabile: grazie al secondo serbatoio, la moto ha dei filtri per la benzina a monte della pompa. Ma in 21000 km, potrebbe esser successo anche questo.

Comunque, visto che dopo un paio di tentativi la moto non riparte, la benzina c’è, eccetera, non resta che fare un check della pompa. Tolgo la sella. La pompa è proprio lì sotto. O meglio, dovrebbe essere li sotto, ma in realtà trovo solo uno spesso strato di fango. La scenografica polvere rossa, che ha dato un aspetto così avventuroso alla moto, si è infilata dappertutto e con la pioggia si è trasformata in fango. Accendo quadro e cerco di sentire il ronzio della pompa: silenzio assoluto. Mi metto a pulire tutto. Quando è sufficientemente pulito, stacco i jack della pompa e cerco di pulirli soffiando. Sono veramente sporchi e non ci sarebbe troppo da meravigliarsi se non facessero più contatto. Pulisco e ripulisco cercando di non far entrare il fango nel posto sbagliato.

Li ri-inserisco e faccio gli scongiuri (inutile dire che siamo, come sempre, in mezzo al nulla) Dò gas e faccio girare il motorino d’avviamento. Dopo qualche, lunghissimo, secondo il motore parte. Evviva! Rimonto la sella, metto la prima e la moto si spegne di nuovo. Rismonto tutto e cerco di pulire meglio. Mi prendo il tempo necessario per fare una cosa “ad arte”. Poi accendo di nuovo. Parte. Accelero per essere sicuro che funzioni bene a tutti i regimi. Non ho mai goduto così tanto sentendo il suono dell’Akrapovic. Un paio di minuti di verifica: gira davvero bene. Rimonto tutto senza spegnere e raggiungo la prima stazione di servizio: ci meritiamo un cappuccino.

Il resto della tappa è senza problemi. A parte uno sbaglio di strada, che si rivela quasi una buona scelta. Prendiamo la direzione sbagliata ad un incrocio e percorriamo una strada molto più lunga ma molto più bella, su e giù per colline coperte di jungla. Ci sono pure gli elefanti. Quando arriviamo a Patong, stanchi, sudati e sporchi come non mai, siamo già attesi.

Passiamo uno strano Natale.

Attorno a noi persone ben note, ma tutto inserito in un clima e un paesaggio piuttosto inconsueto. Aggiungiamoci pure che Patong Beach non è proprio il tipo di contesto che preferiamo. Il divertimento è piuttosto forzato, tanto da chiedersi se chi viene qui si stia davvero divertendo come vuole dimostrare, oppure sia vittima di un meccanismo che vede recitare ad ognuno la sua parte.

Un esempio: i ragazzi fanno la fila per farsi fotografare mentre un poliziotto consenziente finge di arrestarli e poi “postano” immediatamente l’immagine. Così possono dimostrare di aver esagerato davvero. Perché questo è l’obiettivo: esagerare.

Del resto è tutto esagerato: troppi locali, troppi turisti, troppo traffico, troppo cattivo gusto. Ma questa, ovviamente, è l’impressione personale, che non modifica il divertimento, molto casalingo, di cui abbiamo goduto. Ci fermiamo tre giorni, facciamo qualche bagno, qualche buona cena casalinga (dopo tanto tempo, ci voleva).

E cominciamo a fare piani per gli ultimi giorni. Ci sono di mezzo le festività, che ci faranno perdere qualche giorno. Dobbiamo raggiungere Kuala, consegnare i documenti, fare la cassa e trovare un biglietto aereo per il nostro ritorno.

Il 27 ci muoviamo verso la Malaysia. Google Earth ci consegna un percorso interessantissimo. Per tornare sulla strada principale, che percorre tutta la penisola, da Bangkok a Singapore, ci fa percorrere solo strade secondarie, molti tratti sterrati e ci propone panorami inconsueti. Ovviamente ci fa anche perdere un sacco di tempo. Arriviamo alla frontiera che è già buio. Le pratiche sono snelle: ho già l’assicurazione e il permesso di guida. Occorre solo vidimare il carnet e avere il visto. Poi ci dirigiamo verso Georgetown. Un paio di centinaia di km scorrevolissimi e poi il lunghissimo ponte che collega l’isola alla terra ferma. Arrivati sull’isola di Penang giriamo a destra. Ancora una decina di km nella città moderna e entriamo nella città vecchia, patrimonio dell’umanità difeso dall’Unesco.

E’ una delle città con maggiore fascino di quest’area. Andiamo a colpo sicuro verso l’Eastern & Oriental, uno degli alberghi storici. Non ce lo possiamo permettere, ma è un ottimo punto di riferimento. Attorno ci sono decine di alberghi e guesthouses per tutte le tasche. Visto che siamo alla fine ce ne concediamo uno “midrange”. Prezzo medio e ottimo servizio. Ci danno una camera con due letti matrimoniali: non siamo mai stati così comodi. Ottimo parcheggio coperto, così non ci tocca neppure scaricare la moto.

Subito fuori per cena e per una passeggiata, ottima per sgranchirci le gambe. Passiamo a Georgetown un paio di giorni in giro per Chinatown e Littleindia. Ci sono milioni di botteghe polverose che vendono di tutto: rottami, antiquariato, oggetti strani. Centinaia di ristoranti di strada che lavorano a tutto vapore 24 ore al giorno, frequentati dall’umanità più variegata del mondo. Vecchi cinesi con la cannottiera alzata sulla pancia, malesi tradizionalisti e ipermoderni, cinesi del canale, cinesi di Singapore, australiani, vecchi marinai olandesi, turisti di tutte la nazionalità, filippini, indonesiani di Sumatra. L’atmosfera è quella dei vecchi film d’avventura con Marlene Dietrich.

Dedichiamo un bel po’di tempo ad organizzare al meglio l’agenda dei prossimi giorni.

Dobbiamo essere a K.L. il 30. Il 31 prepareremo la prima parte delle pratiche e farò un salto alla concessionaria BMW per vedere se una delle casse in cui vengono consegnate le moto in arrivo da Monaco è riutilizzabile per la nostra spedizione.

Facciamo tutto secondo programma. Dovremo anche far lavare la moto. Peccato. Come ho già detto, sporca com’è, è davvero bellissima. Non riusciremo mai più a renderla così “vissuta”, ma le norme igieniche richiedono un minimo di pulizia, pena essere sottoposti alla “fumigation” al momento dell’arrivo.

Provo anche a resistere, sostenendo che in Italia la dogana non è poi così restrittiva. Lo spedizioniere, che risponde al nickname di “1$” (in realtà ha un bellissimo nome da sceicco arabo, che io non cambierei per tutto l’oro del mondo anche se è un po’ lunghetto: Haji Mohammed Assir Bin… eccetera), guarda la moto senza parlare. La guardo anch’io e mi domando come reagirebbe un doganiere europeo guardando questo mucchio di fango e polvere raccolta in Italia, Grecia, Turchia, Iran, Pakistan, India, Nepal. Malaysia, Thailandia, Laos, Cambogia…

Beh, è facile pensi che in questa polvere si nascondano chissà quali germi, pronti a distruggere la civiltà occidentale.

Meglio evitare problemi. Lavatela.

Passo in BMW per la cassa. Dopo lunga considerazione concludo che forse è meglio farne una ad hoc. Le casse per le spedizioni “overseas” sono “oneway”: una volta aperte è molto difficile rimontarle dando loro la robustezza originale. Perciò non resta che tornare di corsa dal corriere e dare a lui l’incarico.

Alla fine lascio la moto e prendo il treno da Port Klang per tornare a K.L..

Ci viaggio per un’ora abbondante, in compagnia di centinaia di ragazzi che vengono a festeggiare il capodanno proprio nella zona in cui “abitiamo” noi. Con tutto il casino che stanno facendo già ora, sarà una nottata durissima.

Arrivo a “casa” che sono stravolto. Andrei a dormire subito, ma Anna insiste per andare a vedere i fuochi sotto le torri Petronas. Sono troppo stanco per resistere: tutto sommato, capodanno c’è solo una volta all’anno. Perciò usciamo verso le 10. Cammino come uno zombie.

Il festeggiamento si riduce a girare per la città suonando delle rumorosissime trombette e innaffiandosi di schiuma da barba. La Malaysia è rigidamente musulmana e di alcool se ne consuma poco, anche se è assolutamente legale e in libera vendita. Se vuoi ubriacarti non devi fare altro che entrare in qualsiasi Seven Eleven, che sta aperto 24 ore. Ma non lo fa quasi nessuno, salvo qualche ragazzetto che deve fare la sua esperienze.

Per il resto si gira per i viali, si suonano le trombe, si corre, si porta in giro la fidanzata oppure si passa la serata con gli amici o le amiche. La città è piena di ragazze che vanno in giro in gruppetti, con in testa degli strani marchingegni luminosi: orecchie da coniglio, corna d’alce, eccetera. Tutti, anche i più esagitati, appena ti incontrano ti augurano buon anno.

Arriviamo alle Petronas. Troviamo un posto sul prato. Io mi stendo sull’erba, con una bella visuale, da sotto in su, verso le torri. Nascosto dalla folla c’è anche un palco da dove si alza una musica assordante. Tutt’attorno la folla si muove e le trombette strepitano. A fianco della Petronas c’è un’altra torre, appena più bassa, in cima alla quale svetta un orologio digitale. Sono le 22 e 30. Non ostante il casino biblico, mi addormento di schianto. Attorno a me succede di tutto ma io dormo come un bambino. Anna mi sveglia alle 23 e 50 almeno sarò presente al capodanno. Il pisolino mi ha fatto bene. Assisto ai fuochi con partecipazione e mi viene anche voglia di una birra: se non ricordo male è la prima da 4 mesi. L’ultima l’ho bevuta a Dogubayazit, in Turchia. Mamma mia quanto tempo è passato!

Alla fine dei fuochi, ce ne torniamo verso il Golden Triangle. Una birra per me e un calice di Riesling per Anna. Buon anno!

Alle due di notte ci sono già squadre di spazzini all’opera per riportare la città alla solita meticolosa pulizia Il primo dell’anno ci riposiamo, andiamo in giro per comperare qualche regalo per chi ci ha aiutato durante il viaggio (e sono tanti, amici, parenti, eccetera) e rifacciamo i bagagli. Metteremo tutti i “generi non deperibili” nelle valigie e li imballeremo con la moto, insieme ai caschi. Il resto (abiti, computer, macchine fotografiche, medicinali e documenti), lo porteremo con noi. E’ importante che siano bagagli molto ridotti, in modo da poterli portare con noi in cabina e ridurre i tempi morti.

Il 2 torniamo a Klang. Questa volta viene anche Anna. La moto è bella pulita e ci aspetta.

MI aspetta la solita procedura: svuoto il serbatoio, stacco la batteria, sgonfio le gomme (la pressione, anche per il trasporto via mare, deve essere inferiore a 2 atmosfere). A causa della famosa vite strutturale sostituita, per smontare il serbatoio devo togliere il manubrio. Nulla di difficile. Alla fine, visto che la piattaforma, già pronta, è un po’ più grande del necessario, evitiamo di smontare la ruota anteriore: basta mettere la moto un po’ di sbieco.

Il momento toccante scatta quando la moto, imbracata sulla sua piattaforma, viene avvolta nella plastica.

Perché le stiamo facendo questo?

Basta cambiare le gomme e fare un tagliando. Da qui si potrebbe andare in Indonesia (Sumatra, Giava, Bali e giù fino all’Australia, oppure potrei spedirla in Sud America: lì l’estate è appena cominciata…). Tutta la stanchezza accumulata me la dimentico all’istante. Perché la stiamo imballando? E pronta a proseguire il viaggio e anche a me pare di non essere mai stato così in forma…

Anche Anna, che di solito è la più resistente in questi momenti, sembra avere un momento di cedimento.

Ma ormai il meccanismo è partito (e i soldi sono finiti…).

Non c’è più altro da fare se non trovare un biglietto aereo ad un prezzo decente.

1$ (Haji Mohammed Assir bin…) ci offre il pranzo e ci comunica che il moto club Malese l’anno prossimo sarà a Garmish. Spediranno le moto in Turchia. Da lì che strada è meglio fare? Saremo a Garmish anche noi? Faremo un tratto di strada assieme?

Certo! Teniamoci in contatto.

Ah, ecco qualche notizia interessante: al momento della spedizione la moto segna 23090 km.

Se consideriamo, come è corretto, Garmish come punto di partenza, la moto ha percorso 22500 km in meno di quattro mesi di viaggio effettivo. Ha consumato 350 grammi d’olio, due treni di gomme, una camera d’aria (causa foratura), una lampadina, tre flaconi di lubrificante per la catena e 400 ml di detergente. Due serie di pinze dei freni. Ho regolato la catena tre volte, di cui almeno due solo per avere una centratura perfetta. E non è che le siano mancati traumi e fatiche. L’abbiamo smontata e rimontata due volte, l’abbiamo caricata a braccia su tricicli, camion, furgoncini. Si è “incontrata” con mucche, paperi, macigni. Ha percorso non meno di 2000 km in fuoristrada e almeno 1000 km sopra i 4000 metri. Ha bruciato litri e litri di benzine pessime. Si è portata in giro per mezzo mondo due persone, 35 litri di benzina e 50 kili di bagagli.

Brava. Bravissima.

Arrivederci in Italia.

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