SETTIMO DISPACCIO

Racconto intermedio

29 novembre 2012

Ormai l’appuntamento è diventato un impegno (almeno per me) e mi preparo a darvi la relazione dell’ultimo mese.

Scrivo imbaccuccato in tutto quello che ho di più caldo dalla stanza di un albergo vietnamita di Phonsavan, Laos. Siamo nella Piana delle Giare, una delle zone più bombardate del mondo. Qui, fra il ’64 e il ’73, è caduta una bomba ogni 8 minuti, 24 ore al giorno. Per 9 anni. Come dicono i cartelli della mostra dedicata alle operazioni di bonifica, 0,833 “cubic ton” per abitante. Ognuno degli abitanti di questa zona ha avuto diritto a 833 kili di esplosivo, distribuito sotto le forme più varie: bombe da demolizione, a frammentazione, cluster bombs, napalm, defolianti, mine antiuomo. Il campionario completo. Grazie a tutto questo ben di Dio, intere aree sono assolutamente disabitate e l’antica capitale, Muang Khoun, è ridotta ad un cumulo di ruderi. Piove a dirotto e scrivo in attesa di un improbabile miglioramento che ci consenta almeno di raggiungere la frontiera vietnamita dove, forse, riusciremo a passare.

Siamo arrivati qui ieri sera, dopo una giornata piuttosto pesante. Siamo andati al mercato per cercare qualcosa da mangiare. Abbiamo trovato tutto quello che ci serviva ma la sensazione è stata piuttosto sgradevole: sui banchi c’era di tutto: mazzi di serpenti (bisce), catini pieni di larve, carne di origine sospetta (qui si serve comunemente il cane), strani animaletti da pelliccia venduti per fare la zuppa, ratti “alla diavola”. Il tempo ha cominciato a peggiorare a Luoangphrabang l’altro ieri e, da allora, ha quasi sempre piovuto.

I 250 km e le 1000 curve previsti ieri li abbiamo coperti in 8 ore, prima in mezzo alla nebbia poi sotto l’acqua. Scoprendo che le tute antipoggia, dopo un uso troppo intenso, hanno dato forfait.

Abbiamo entrambi la sensazione di viaggiare seduti su un rubinetto aperto. L’acqua entra dalla cucitura del “cavallo” e fluisce allegramente, rinfrescandoci le parti basse. Non è una bella sensazione, soprattutto se la dovete sopportare per ore e fa freddino. Forse un pannolone aiuterebbe. Perciò oggi non abbiano molta voglia di partire sotto questa pioggia, ma sono solo le sette e mezza del mattino: possiamo sperare che migliori.

Per non mettermi troppo di cattivo umore e passare il tempo a guardare fuori dalla finestra, inizio la relazione.

Ci siamo lasciati al nostro arrivo a Kuala Lumpur. Dopo due mesi di Asia profonda, K.L. è una boccata d’aria pura. Mezzi di trasporto perfetti, traffico ordinato, indicazioni chiare, prezzi esposti, clacson silenti. Scendiamo dall’aereo all’alba, prendiamo il treno superveloce per KL Central. Poi 5 fermate di monorail e siamo a Bukit Bintang. Altri 500 metri a piedi e siamo nella nostra guest house preferita. Doccia e un salto al supermercato del Pavillion per fare la spesa. C’è di tutto, compresi i prodotti gluten-free. Spuntino, pisolino e si ricomincia.

Devo chiamare il corriere per organizzare lo sdoganamento e fargli avere i documenti che gli necessitano e organizzare il trasporto della cassa direttamente alla locale BMW. Cosi si potrà fare il “tagliando”, cambiare le gomme e risolvere il problema della vite grippata. In più devo ottenere il permesso di guida, stipulare l’assicurazione e fare un piano di viaggio.

La moto ha accumulato altro ritardo e arriverà solo venerdì sera. Incontro il corriere alla stazione cargo venerdì mattina: spera di sdoganare fra sabato e lunedì e ce la fa. Un miracolo. Mi metto in contatto con Gary di Autobavaria (aveva fatto il tagliando al 1150, quattro anni fa), si ricorda di me. Ci accordiamo per consegnarla “appena sdoganata”.Anna fa un salto all’Automobile Association of Malaysia per il permesso di guida e l’assicurazione.

Abbiamo la domenica libera, ma lunedì si ricomincia molto presto. Monorail fino a KL Central, treno fino a Subang Jaya, taxi fino a Glenmarie dove ha sede la concessionaria. La moto arriva alle 12, sotto il temporale che tutti giorni ci allieta metà giornata fino a notte. Scaricare è impossibile, perciò il camion va a fare altre consegne e torna sul tardi. Finisce che passiamo tutta la giornata in concessionaria. La mattina dopo si ripete per l’apertura della cassa. Sembra tutto in ordine. Occorre solo risolvere il problema della vite grippata. E’ grippata “a metà strada”: bisogna toglierla e sostituirla. Non dovrebbe essere un problema insormontabile: hanno tutta l’attrezzatura necessaria: ci vediamo mercoledì. Occupiamo martedì per ottenere i permessi e stipulare l’assicurazione. Mercoledì arriva la telefonata che non volevo arrivasse: abbiamo un problema. Solito pellegrinaggio per vedere la vite “in gran parte” estratta. Ma un pezzo è rimasto nella testa. Ora che si fa? Optano per rialesare il foro e mettere una vite passante, con il suo bel dado dall’altro lato. Se non si allenta, dovrebbe essere una buona soluzione.

Ma si perde altro tempo: la moto sarà pronta solo sabato. Così saranno tre settimane di fermo: esatte. Nel frattempo conosciamo tutti i soci del moto club malese e raccogliamo una serie infinita di informazioni per il seguito del viaggio (ringrazio Nick per il road book precisissimo) e su una serie di itinerari che per noi sono il massimo dell’esotismo, mentre per loro sono gite domenicali. Sabato ritiriamo la moto. Ho fatto montare un bel paio di Karoo T, che dovrebbero mettermi in condizione di fare anche strade piuttosto brutte. L’unico dubbio è che resistano per tutti i km restanti (circa 10000).

Visto che non ne possiamo più, partiamo domenica mattina. Partiamo molto presto: dopo le due è quasi certo che piova. Puntiamo a nord verso Georgetown. La strada è così bella e veloce che decidiamo di proseguire fino al previsto acquazzone che arriva così improvviso da non permetterci neppure di mettere le tute antipoggia. Dormiamo a 10 km dalla frontiera Thailandese: 550 km in un soffio, comprese le soste con tutti i motociclisti che incontriamo.

La mattina dopo passiamo la frontiera. Nick ci ha consigliato: Chumphon, Hua Hin, evitare Bangkok e puntare verso il confine Birmano, costeggiandolo fino all’estremo nord: il triangolo d’oro. E’ una strada molto famosa da queste parti: la tesi di laurea per tutti i biker.

Viaggiamo sui 100 all'ora al ritmo di 500 km al giorno. La moto è appena stata tagliandata e ci sentiamo piuttosto arzilli e confidenti. Partiamo presto da Chumphon in direzione Hua Hin. Pur essendo un’autostrada, ogni tanto c’è un semaforo che regola qualche incrocio.

Arriviamo ad uno dei semafori. Lo vedo da lontano, non freno e scalo una marcia dopo l’altra. Quando decido di frenare, ad una bella distanza dalle macchine già ferme, ho un attimo di sgomento: il freno anteriore va a vuoto. Mi fermo usando quello posteriore e constato che la pinza destra penzola appesa al tubo. Oddio! Siamo fermi per sempre: sarà uscito tutto l'olio.

Invece no. Forse le pastiglie nuove hanno una sufficiente tenuta e l’olio è rimasto tutto al suo posto. Il tubo è piuttosto ciancicato e la pinza, penzolando, ha lasciato una bella riga lungo il cerchio...

Ora (oltre a ringraziare tutte le divinità) che si fa? Siamo in un punto imprecisato della Thailandia a 14000 km da casa.

Devo trovare due viti adatte. Per ulteriore, insperata fortuna (ridicolo detto in una situazione come questa) c'è un semaforo, c’è un incrocio e attorno all'incrocio c'è qualcosa che assomiglia alla periferia di un paese. Scarico la moto, tolgo una vite dal lato in cui sono rimaste entrambe e mi metto alla ricerca di qualcosa di simile. Torno indietro per mezzo km e trovo un tizio che ripara batterie per auto. E' gentile, si sbatte per trovare qualcosa, ma non ha nulla di adatto. Mi indica di tornare indietro per un altro km, che c'è un salone Yamaha. Solo motorette. La commessa però mi fa segno che 300 metri più in là che c'è qualcuno che potrebbe aiutarmi. Un magazzino di attrezzeria idraulica.

Gesticolo con la proprietaria: capisce e traffica finché trova un dado adatto. Poi cerca le viti corrispondenti. Ne ha di due tipi: corte con la testa da 14 o lunghe con la testa da 17. Ne prendo 3 per tipo e qualche rondella autobloccante. Ritorno alla moto. Le viti corte si avvitano solo per pochi giri (e non ho la chiave da 14). Quelle lunghe sono troppo lunghe e non sono completamente filettate. Occorre tagliarle e trovare delle rondelle piatte per regolare la lunghezza della filettatura. Le rondelle piatte le ha il tizio delle batterie. Ma occorre tagliare le viti. Torno all'attrezzeria. La signora mi dice che il personale è "busy", perciò mi mette in mano un seghetto e mi indica dove sta la morsa. Mi metto lì e taglio, cercando di fare un lavoro pulito.

Torno alla moto (il tutto a 33 gradi, con pantaloni e stivali, per un totale di almeno 6 km avanti e indietro). Metto una vite originale e una “hand made” per lato, con qualche rondella per regolare la misura. Frena. Stringo tutto e faccio un giro: tengono bene. Insperatamente siamo vivi, in buona salute e con i freni utilizzabili. Ovviamente non ho completa fiducia nella riparazione perciò facciamo un “detour” verso Bangkok dove c'è BMW per prendere due viti originali: 350 km.

Con le mie pinze d’emergenza attraversiamo la città. A Bangkok il traffico è ordinato, ma davvero convulso. Le moto non sono ammesse su alcune strade e devi viaggiare rigorosamente sulla sinistra, dove si fermano i taxi e i bus fra i quali devi zigzagare continuamente. Dobbiamo andare alla concessionaria due volte, perché la prima ci dicono che non hanno le viti a stock e arriveranno solo il giorno dopo. Ok.

La seconda volta le viti ci sono. Controllo la coppia di serraggio seduta stante, anche a costo di sembrare antipatico. Il resto della bulloneria l’ho controllato ieri…

Bene, si può ripartire. Il detour verso Bangkok ci consiglia di cambiare un po’ la rotta. Dovevamo costeggiare il confine birmano puntando verso Kanchanaburi (dove era ambientato “il ponte sul fiume Kwai”), dirigerci verso il Three Pagoda Pass e da lì, lungo una strada che sulla carta non è neppure segnata, salire a fino a Mae Sot. Ma da Bangkok è molto meglio puntare verso nord: Suphan Buri, Nakhon Sawan e Tak. Da lì gireremo verso ovest per raggiungere Mae Sot e riprendere il percorso originale.

Uscire da Bangkok è una faticaccia anche se partiamo alle 6 del mattino. C’è solo l’ora di punta, che dura 24 ore. In sole due ore arriviamo abbastanza fuori città da avere di nuovo il permesso di viaggiare in autostrada, mangiamo qualcosa fuori da un centro commerciale e proseguiamo. Faccio una interruzione di colore locale.

E’ dall’India che non riesco a mettere le mani su nulla che non sia già zuccherato. Lo yoghurt è SOLO ZUCCHERATO. Quando compro il latte devo leggere l’etichetta per mezz’ora perché quasi tutti SONO ZUCCHERATI, Il caffè in polvere è GIA’ ZUCCHERATO. Perfino i corn flakes sono GIA’ ZUCCHERATI. Ottima vita per un diabetico.

La strada è costellata di templi, stupe e pagode. Ne visitiamo parecchie, cercando di identificare quelle più interessanti o più antiche: un bel modo per rendere la strada meno noiosa. Arriviamo a Kamphaeng Phet in tempo per la cena e per pianificare la vista alle sue rovine la mattina dopo alle 7. Molto belle: in mezzo alle antiche mura c’è in bel parco nel quale si erge un bellissimo complesso di templi. Visita all’alba e poi via verso Mae Sot. Da lì comincia la più famosa strada di quest’area. Un circuito di quasi 1000 km, con un tratto noto per le famose 1864 curve.

Nella zona sono ospitati migliaia di profughi birmani e (in una specie di zoo) i rifugiati Karen. Che nessuno conosce con questo nome, ma se vi dico che sono quelli che allungano il collo delle donne mettendoci una serie di anelli dorati, forse ve ne ricordate. I campi sono relegati fra la strada e il confine: una striscia di terreno che a volte è meno di 100 metri. I profughi più sfortunati si trovano a vivere in una scarpata fra il torrente, che segna il confine, e il filo spinato che corre lungo la strada, 20 o 30 metri più in su. I Karen hanno fatto dell’aspetto delle loro donne una attrazione turistica. Si paga il biglietto e si può visitare il villaggio. Le donne si fanno fotografare e vendono un po’ di artigianato di dubbia origine. Gli uomini dormono e bevono: non hanno il collo lungo.

Senza difficoltà raggiungiamo Mae Sariang e poi Mae Hongson, dove ci avanza tutto il pomeriggio per vistare la locale comunità Karen. E finalmente ci toccano le 1864 curve fino a Pai e almeno altre 500 fino a Chiang Mai.

Una bella città, con le sue rovine, i suoi templi e tutta una serie di cose carine da fare e da vedere prima di proseguire verso il triangolo d’oro, traghettare sul Mekong a Chiang Khong e proseguire verso Louangphrabang.

800 km di strada difficile da definire. Nick ha detto che è in buone condizioni salvo qualche tratto di facile fuoristrada. Speriamo. Intanto ho spiattellato le Metzeler Karoo per 3000 km di asfalto: speriamo che durino fino alla fine. Faccio ancora una digressione dal racconto vero e proprio. In questo viaggio abbiamo visto molti posti nuovi e molti posti che già conoscevamo. A parte il Nepal, la Thailandia è la prima nazione nuova che visitiamo in quest’area del mondo e ne seguiranno altre: Laos, Vietnam e Cambogia.

Finalmente potremo mettere nella lista dei nostri viaggi in moto la stella dei 50 paesi visitati (che forse sono 60, ma siccome non sono sicuro - ho lasciato la lista a casa – dico 50, meglio non esagerare). Un paese del tutto nuovo implica un po’ di stress nei primi giorni. A cominciare dalle pratiche doganali per andare alla valuta, gli alberghi, la benzina, la cucina, usi costumi, tradizioni. Non tanto dal punto di vista culturale ma da quello pratico: fino a che ora trovo da mangiare? Quando aprono le banche? La benzina quanti ottani ha? Se vado da A a B, troverò un distributore aperto? Se ordino carne sarà di cane? Come faccio a sapere se nelle frittelle c’è farina di riso o farina di grano? Come faccio a chiedere che non mettano zucchero nel caffè? Ce la dobbiamo cavare. In un paese in cui sei già stato, i trucchi basilari li conosci.

Tornando al viaggio: la Thailandia, anche nelle zone più periferiche è estremamente “facile”. Ora che lasciamo Chiang Mai, dovremmo ritrovare un po’ di esotismo. Saliamo a nord per 200 km e poi giriamo verso est, seguendo il Mekong. Siamo in pieno triangolo d’oro. Uno dei posti che, per la mia generazione, ha rappresentato il limite estremo dell’avventura: spacciatori, guerriglieri, trafficanti. Ben 4 nazioni esotiche che si affacciano sugli stessi, pochi chilometri di jungla impenetrabilmente esotica. Ci arriviamo in autostrada. La coltivazione dell’oppio e della coca è stata soppiantata da quella del caffè. E’ ottimo, meglio pagato e assolutamente legale. Strada facendo ci beviamo un paio di cappuccini davvero buoni.

Giriamo a est verso Chiang Khong. La strada peggiora un pochino, ma l’atmosfera è sempre quella di una campagna tranquilla. Solo gli ultimi km sono di nuovo in mezzo alla jungla. Meno scenografica di quella al confine con Myanmar. Gli alberi sono più piccoli e fa un gran caldo. Poi vediamo il Mekong: non è così enorme come me l’aspettavo. Giallo e fangoso, cosparso di strane formazioni rocciose che spuntano dal fondo. Lo seguiamo per mezz’ora e arriviamo al traghetto. Il paesino rivierasco ha come specchio il paese Laotiano che si trova proprio di fronte.

Facciamo benzina e conosciamo un tedesco che pensa di passare anche lui di là, ma ha qualche problema perché cavalca una moto immatricolata in Thailandia. Avrebbe intenzione di andare, come noi, a Louangphrabang. Chiede se siamo informati sulle condizioni delle strade. Gli dico che non ne so quasi nulla, salvo la rassicurante descrizione di Nick, che fino ad ora si è rivelata assolutamente precisa. Tiro fuori la mappa. Lui la guarda con un certo disgusto e prende la sua che è “MOLTO più precisa”. E mi fa tutta una storia sull’ultimo tratto verso Louang Phrabang: è praticamente impercorribile per la sua moto. Ma noi “potremmo” farcela. Sembra molto informato. Perciò mi mette un po’ di preoccupazione.

Purtroppo non ci sono alternative: solo sentieri in mezzo alla foresta. Ci lasciamo dandoci appuntamento all’imbarco. Con Anna andiamo in piazza per mangiare qualcosa e non troviamo nulla di meglio che un kg di caldarroste appena fatte. Vabbè che è quasi Natale, ma ci sono 32 gradi. Comunque le castagne sono buone. Scendiamo verso l’imbarco. Il tedesco è lì che riempie moduli su moduli. Vado allo sportello: devo esportare la moto. Bene: dammi il documento XX. Controllo se ce l’ho. No. Ho tutti documenti che mi hanno dato all’ingresso in Thailnadia, ma quel modulo lì non l’ho mai visto. L’impiegato risponde che senza quel documento non può farmi uscire: devo tornare a Chiang Mai. Non se ne parla. Controllo io tutti i documenti. Eccolo: un prestampato compilato in ogni sua parte dalla dogana d’ingresso. In testa c’è scritto in tre lingue: certificato d’importazione temporanea del veicolo. Ha la faccia diversa ma è proprio quello che mi sta chiedendo. Insisto. Lui s’arrabbia e mi urla di andare all’ufficio doganale. Ci vado. Lì c’è un tizio più intelligente, prende il documento e mi dà la ricevuta: posso imbarcarmi? Certo. Torno dal primo e gli dimostro che è tutto a posto. Lui, siccome è cretino (ma li devono mettere tutti alle frontiere?), cambia la versione sostenendo che in Laos non mi faranno entrare. Figuriamoci!

Il tedesco è sempre lì che litiga con i documenti mentre mi metto in coda per l’imbarco. Il traghetto è una chiatta (anzi due, una và e l’altra viene) spinta da un battello che viaggia a fianco.

La discesa verso l’imbarco è un mare di fango. Ma è l’unico punto in cui passare: ho trovato dove utilizzare le Karoo. Alla fine, va meno peggio del previsto e siamo sulla chiatta. Lo sbarco in Laos è decisamente più semplice. Ma occorre fare tutte le pratiche doganali: ci mettiamo tre ore, assicurazione esclusa. Troviamo un posto per dormire, facciamo un prelievo bancomat e andiamo a cena. L’assicurazione la faremo domattina. Il tedesco non l’ho più visto: chissà se è riuscito a passare.

La mattina riusciamo, non senza difficoltà, a fare l’assicurazione e partiamo nella nebbiosa mattina Laotiana. Dopo 100 giorni di viaggio cominciamo ad essere un po’ stanchini. Anna ha spesso mal di schiena e io non mi sento troppo in forma. Mi pesano le centinaia di pasti raccogliticci, nel goffo tentativo di rispettare le regole alimentari a cui mi devo sottoporre. E anche l’età ha la sua importanza…

Urge una sosta. Puntiamo diretti verso Louangphrabang, località turistica e perciò più adatta a passare qualche giorno di relax.

Ci arriviamo in due giorni. La strada è impegnativa ma assolutamente percorribile da qualsiasi moto. Anche gli ultimi km, che il tedesco di Chiang Khong aveva dipinto come difficilissimi. La strada corre a pochi chilometri dalla frontiera cinese: insegne e cartelli sono tutti in due lingue (ugualmente incomprensibili). Luoangphrabang è il posto ideale per la nostra identità segreta: quella di due tranquilli pensionati in cerca di luoghi esotici. Una bellissima cittadina di impronta francese costellata di templi buddisti, messa alla confluenza di due fiumi di cui uno è il Mekong. Il posto ideale per gustare croissants e baguettes all’ombra delle palme, guardando i monaci buddisti giocare a belotte.

Cerchiamo di riposare per due giorni in mezzo ad una frotta di turisti che escono dal ristorante per entrare in un caffè. E ripartiamo per ritrovarci al punto di partenza. Siamo a Phonsavan, sono le 11 e piove ancora abbondantemente.

Che si fa?

3 dicembre 2012

Riprendo il racconto oggi, per aggiornarvi sulle ultime novità. Cominciamo da cosa abbiamo fatto il 28 novembre: ho la vanità di avervi lasciato in attesa di sapere che cosa è successo. Pioggia o non pioggia, siamo partiti alle 11 e trenta. Abbiamo cercato di limitare l’ingresso dell’acqua con un po’ di nastro adesivo e sistemando con molta cura cerniere e velcri: la tenuta è abbastanza migliorata.

La frontiera di Nam Chan è a circa 150 km, tortuosi e pieni di saliscendi. Ogni tanto saliamo sopra la nubi, ogni tanto ci viaggiamo dentro, raramente sotto. Piove senza troppa convinzione, perciò avanziamo ad una velocità ragionevole. Faccio un'altra digressione personale. Ho sempre sostenuto di non essere superstizioso e forse non lo sono davvero. Ma, quando viaggio, sono abbastanza preoccupato quando il contachilometri sta nei tredicimila km ( in questo viaggio hanno corrisposto alla sfortunata spedizione della moto, alla rottura della vite e alla perdita della pinza-freno) e nei 17000.

Ora siamo appena entrati nei 17000.

Torno alla cronaca: a circa metà strada c’è un altro tratto di fango. Circa un km. Sulla destra c’è un camion che ha perso il controllo ed è finito in parte nella scarpata, perciò si procede in una strettoia che costringe tutti mezzi pesanti a fermarsi e attendere che qualcuno si occupi di rimuovere il veicolo bloccato. Nello spazio libero cercano di passare, con alterno successo, tutti gli altri, più che altro a spinta. Anna scende e, grazie ai benedetti pneumatici da fuoristrada, passo senza troppi problemi. A parte quello di beccare il momento giusto per non essere spinto nella scarpata da qualche furgoncino che cerca di infilarsi nella stessa strettoia.

Proseguiamo in un bellissimo paesaggio di montagna indubitabilmente novembrino. La strada è cosparsa di poverissimi villaggi in cui occorre fare attenzione ai bambini, ai cani, ai maiali, ai polli e alle papere, che la considerano proprietà privata. Fino ad oggi ne ho attraversati centinaia senza incidenti. Oggi no: uccido un papero. L’animale, noto per la sua non eccelsa furbizia, dopo essersi diretto verso il bordo della strada decide di invertire la direzione e si suicida proprio sotto le nostre ruote. Peccato, è sicuro segno di destino avverso. Ci fermiamo qualche km prima della frontiera per un caffè. Non c’è altro che una guest house. Ce lo fa pagare carissimo e ce lo serve zuccheratissimo, perciò non lo bevo. Anna nota con piacere che c’è una guest house anche qui. Arriviamo alla frontiera Laotiana appena dopo pranzo. Fanno un po’di casino con il carnet ma alle 2 ci avviamo verso quella Vietnamita, 500 metri più in là.

Gentilissimi. Mi aspetto che facciano difficoltà par la cilindrata della moto (in Vietnam non potrebbero circolare moto più di 175 cc) ma sciorino tutti i documenti: carnet, libretto internazionale, patente internazionale, libretto italiano, lettere di presentazione varie. Mentre trattengono il passaporto, mi prende in consegna una giovane ufficialessa. Chiede se è tutto quello che ho e le rispondo che mi pare di avere davvero tutto, meno l’autorizzazione fatta dall’ambasciata Vietnamita a Roma, che peraltro si è dichiarata impreparata ad affrontare la complicatissima procedura. La ragazza si preoccupa mi fa presente che sarebbe “the very first time” che una moto straniera entra in Vietnam. Con la massima cortesia mi permetto di contraddirla: ci sono almeno tre casi conclamati. Va bene: ne parlerà con il suo leader.

A questo punto dò informazione a tutti i viaggiatori che:

A) Nessuno ha fatto il minimo accenno alla cilindrata del veicolo

B) Per quelli che pensano che una mancia risolve tutto, comunico che tutto il dialogo si è svolto in pubblico e che il “leader” mi ha parlato solo per telefono. Perciò “no way”.

I documenti spariscono per un bel po’. La ragazza torna chiedendomi il numero dell’ambasciata italiana ad Hanoi e quello del contatto con Care the People a Da Nang. Chiama l’ambasciata italiana.

Beh, se sta facendo tutto questo forse vuole dire che passeremo: sta solo sistemando le cose. Poi, improvvisamente qualcosa s’inceppa. La telefonata a Da Nang non va per il verso giusto: il funzionario che sovrintenderà alla nostra visita (visita ufficiale con richiesta, un po’ comica, di “abbigliamento formale”) sarà irreperibile per 15 giorni. Come mai? La nostra visita è programmata da tempo, ci sono state sollecitate lettere di presentazione, tempi di arrivo e tipo di visita. Com’è possibile che il funzionario che, evidentemente, sta dietro a tutte queste richieste sia “irreperibile”?

Ovviamente, quando c’è l’intoppo la soluzione è una sola: un sentito “mi spiace”. Voi potete entrare ma la moto no. Ovviamente non possiamo accettare questa soluzione, che fra l’altro non prevederebbe la custodia del mezzo presso la stazione doganale. Perciò, dopo altre infinite e inutili discussioni, veniamo respinti. E già buio e appena usciti, per evitare ulteriori discussioni e in omaggio all’orario di lavoro, la stazione doganale Vietnamita chiude. Ci avviamo verso la stazione Laotiana depressi e con un pesante dubbio: se hanno chiuso anche quella?

Facciamo il mezzo km nella nebbia e scopriamo la prevedibile verità: siamo nella terra di nessuno, fra due cancelli chiusi. Prima di aprire i sacchi a pelo facciamo un tentativo. La moto non può passare e ci avviamo a piedi. Sopra la stazione doganale Laotiana, nascoste nel bosco, ci sono alcune casupole. In una c’è una luce accesa ma la stanza è vuota. Giriamo per una mezz’ora e poi, da chissà dove, spunta un giovane poliziotto che avevamo conosciuto nel pomeriggio. Capisce un po’ d’inglese e riesce a far uscire anche un ufficiale che ci rappezza i documenti: due post-it sui passaporti e un po’ di foglietti nel Carnet, ormai “chiuso in uscita”. Ci mette anche il suo numero di telefono, in caso di difficoltà (sicure) al prossimo passaggio in dogana. Nel buio pesto torniamo a Nam Chan, alla guest house dove avevamo preso il caffè. Per cena uno yogurth e una Coca Zero.

Nel giro di telefonate con l’ambasciata italiana ci è stato consigliato di andare a Vientiane (1000 km fuori dal nostro percorso) e contattare la locale ambasciata Vietnamita. Non resta altro da fare. La mattina dopo ci ripassiamo il km di fango, dove è deragliato anche un altro camion e la coda è ormai lunghissima. Ripassiamo da Phonsavan dove piove come al solito. Ci rifacciamo anche il secondo km di fango, che nel frattempo è notevolmente peggiorato. Poco prima di attraversarlo incrociamo due motociclisti di Singapore su due BMW. Sono piuttosto spaventati perché per superarlo hanno fatto una fatica del diavolo e sono pure caduti. Solo una questione di gomme: quando le scegli, pensa sempre al metro di strada peggiore che incontrerai (lezione confermata dall’esperienza Ladakh).

Proseguiamo verso Vientiane. Raggiungiamo la strada principale verso sera: ormai piove solo a sprazzi ma è da stamattina che siamo infilati nelle tute antipioggia. Dormiamo in una guest house con una bellissima vista, che però apprezzeremo solo domattina: ora siamo immersi nella nebbia.

Appena svegli partiamo per Vientiane: è importante che la raggiungiamo entro mezzogiorno: oggi è venerdì e l’ambasciata Vietnamita chiude per il weekend e forse anche lunedì, che qui è festa nazionale. Arriviamo alle 12, doccia, raccolta dei documenti e rapida visita all’ambasciata. Il funzionario che ci riceve, pur dichiarandosi incompetente (che novità) ritiene che non ci dovrebbero essere ostacoli al nostro ingresso, ma l’autorità competente è quella doganale. Perciò ci consiglia di andare a Savannakhet, 400 km a sud lungo il Mekong, e di raggiungere la frontiera Vietnamita da lì. Ok. Non abbiamo scelta e accettiamo. Passiamo la domenica con i due motociclisti di Singapore, che nel frattempo sono tornati dalla Piana delle Giare. Sono simpaticissimi, colti, intelligenti e molto appassionati di moto. Sono anche Malay, e perciò rigidamente musulmani. Perciò l’unica regola che rispettiamo è quella di mangiare solo in ristoranti Halal. Che è tutt’altro che una limitazione. Ci scambiamo numeri di telefono e indirizzi facebook e alla partenza facciamo un breve tratto insieme. Loro puntano verso la Thailandia mentre noi proseguiamo verso sud. Arriviamo a Savannakhet nel pomeriggio: sembra una cittadina del midì francese in una domenica pomeriggio di agosto.Localizziamo il consolato Vietnamita: domattina all’apertura saremo lì e chiederemo loro di chiamare la frontiera. Non vogliamo essere raccomandati: vogliamo solo evitare altri 500 km di montagna a vuoto, oltre ai certi problemi che ci procureranno i rappezzi sui documenti di competenza Laotiana.

Purtroppo anche lunedì è festa e il consolato rispetta le festività Laotiane. Stiamo fuori dal cancello abbastanza per impietosire un funzionario che decide di dedicarci un po’ di tempo. Anche secondo lui non ci dovrebbero essere problemi, ma si rifiuta recisamente di fare indagini presso la dogana. Insisto: basta una telefonata. Se dicono si andiamo, se dicono no proseguiamo verso sud.

Impossibile avere la sua collaborazione. Proseguiamo verso sud in direzione di Pakxe.

Poco prima dell’ingresso in città sprechiamo un’altra delle nostre 9 vite (sette non credo ci bastino): da un cespuglio salta fuori un vitello a meno di un metro da noi. Forse ha deciso che è l’ora della poppata e mamma mucca lo aspetta dall’altra parte delle strada. Impossibile evitarlo: corre veloce e deciso e noi andiamo, in pieno rettilineo, ad almeno 80 all’ora. La sorte vuole che la nostra ruota arrivi, credo per un centimetro, prima delle zampe del bovino. Perciò, passata la ruota anteriore, il più è fatto. Il vitello si prende una bella botta sul paramotore e noi sbandiamo solo di poco. Lui (il vitello) rimbalza all’indietro e si rialza subito. Io mi fermo per riprendere fiato: devo essere bianco come un cencio.

Ma i colpi di fortuna si superano sempre troppo presto e proseguiamo per Pakxe. Anche qui c’è un consolato, anche se la frontiera è molto più distante, la strada è peggiore e siamo già più a sud di Da Nang. Stesse domande, stesse risposte. Una sola decisione possibile: saltiamo il Vietnam. Oltre a tutto, questi “rimbalzi” ci hanno fatto perdere un sacco di tempo e consumare i pneumatici da fuoristrada che hanno una durata molto limitata.

Perciò ci mettiamo in contatto con il CIAI per organizzare la visita al progetto Mobile Clinic di Mondulkiri. Peccato: quasi 20000 km senza riuscire a completare il programma: una brutta delusione.

Anna e Fabio

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