QUINTO DISPACCIO.INDIA.PROJECT FOR PEOPLE

24 ottobre 2012

Un mese fa, mentre arrancavamo sulle vette del Ladakh, un temporaneo compagno di viaggio che ha trascorso in India diversi anni della sua vita, alla domanda “ ti piace l’India?” ha risposto reciso: no.

Non condivido nulla, ma nessun altro posto al mondo mi dà tanti shock. E’ assolutamente vero anche per me.

Io sono nello “zig” e l’India è nello “zag”. Anche se talvolta ci incrociamo, non facciamo la stessa strada.

Grazie per la pazienza e passiamo ai fatti.

Project for people. Calcutta, India.

Noi siamo “occidentali”, rigidamente convinti del valore dell’organizzazione, della collaborazione, della condivisione e del nostro essere nel giusto. Io sono un occidentale particolarmente rigido. Capisco e non capisco: capisco che ci possono essere altre vie, ma non le capisco.

Che compito difficile mi aspetta, cari lettori.

Perciò da rigido occidentale cerco di partire dai dati di fatto.

Prima cosa qualche parola sulla parte che Project for People ha in questo intervento. Il compito che P.f.P. sostiene è quello di fornire supporto finanziario e, diciamo, logistico dall’Italia. Il “braccio armato” di tutta l’iniziativa è l’IIMC: Institute for Indian Mother & Child. Un’organizzazione interamente indiana, gestita dal suo fondatore con stile perfettamente indiano. Dietro alla scelta di “appoggiare dall’esterno” l’IIMC oltre al successo delle sue iniziative ci stanno molti motivi di cui ne cito uno per dovere di cronaca: è praticamente impossibile per gli stranieri impegnarsi professionalmente in attività sul territorio indiano.E’ consentito un breve soggiorno ai volontari ma nessuna attività stabile. Perciò è giocoforza o utilizzare personale locale o, meglio, sostenere organizzazioni locali in partnership.Perciò bene ha fatto P.f.P. a legarsi all’IIMC. Il progetto è locale attivo specificamente dell’area di Calcutta che ne ha certo bisogno.

Conosco le principali città indiane e anche parecchie delle “2nd tier”, quelle che stanno davvero facendo il miracolo economico. Sono spietate, anzi crudeli. Violente e, secondo il comune metro di giudizio, invivibili. Ma vivaci attive, mai ferme. Da quest’atmosfera sembra che Calcutta sia rimasta un po’ tagliata fuori. Sarà per la sua posizione periferica al confine con il Bangla Desh, sarà la secolare delusione di essere passata dal ruolo di centro della dominazione britannica a “seconda scelta” in favore di Mumbay. Il tradizionale inurbamento delle classi più povere però continua. Ora la città conta, per quanto siano affidabili i censimenti, da 16 a 20 milioni di abitanti. La città è sul delta del Gange, immersa nelle paludi. Qualcuno dei più attempati ricorderà il loro nome: Sundarban, dove i seguaci della dea Kali perpetravano il loro loschi riti.

Bene. La città cola lungo i canali, galleggia sulle paludi. Sorgono casupole in muratura e strette strade tortuose appena asfaltate, inframezzate da strani praticelli che in realtà sono pozze paludose ricoperte di alghe. La gente le usa per gettarci la spazzatura, farci il bagno, abbandonare veicoli guasti, allevare bufali e pescare qualche pesce per il pranzo. Appena dietro alle case in muratura, ci sono le capanne in fango e stuoie, raggiungibili solo a piedi sul fitto reticolo di argini che dividono stagni e risaie.

Questi quartieri sono ex aree rurali assorbite dalla città, in cui si insediano i nuovi immigrati, mischiati con i contadini locali. Aree poverissime: poverissime anche per l’India. Cito dalla presentazione dell’IIMC: l’India conta circa 1.2 mld di abitanti. Di questi il 46% è illetterato (per le donne la percentuale è molto più elevata), il 60% vive in povertà e il 37% è sotto il livello di povertà. Di questi ultimi, oltre l’80% non vede mai un medico in tutta la vita.

Trasformiamo queste percentuali in qualcosa di più tangibile: gli illetterati sono circa 550 milioni, i poveri circa 700 milioni e circa 400 milioni non hanno due pasti al giorno e non vedono mai un medico. Quanti abitanti conta l’Unione Europea? Beh, immaginateci tutti senza cibo e senza accesso alle cure mediche.

E’ in questo contesto che si delinea il progetto dell’IIMC.

Nato da un primo tentativo di fornire assistenza medica gratuita in un’area rurale vicino a Calcutta si è ampliato secondo una linea molto condivisibile: l’empowerment. Il principio è basato sulla percezione che donne e uomini di classi e caste più disagiate, se adeguatamente assistiti nelle necessità basilari, sono in grado di iniziare da soli il proprio cammino di sviluppo e di ridurre i conflitti.

Cito uno degli esempi preferiti dal fondatore. “Una giovane donna con in bambino molto piccolo al collo mi chiede l’elemosina. Sei giovane: perché non cerchi un lavoro? Perché nessuno mi prenderebbe: devo prendermi cura di mio figlio. Allora facciamo così: io mi prenderò cura di tuo figlio per tutta la giornata e tu puoi cercarti un lavoro.”

Questo è l’empowerment.

Perciò IIMC fornisce assistenza medica, servizi alla famiglia e alla persona, cultura, sviluppo della realtà femminile, sviluppo di attività lavorative attraverso il microcredito e supporto nell’implementazione di nuove attività. Per il sostegno delle spese scolastiche o assistenziali, per esempio, l’IIMC ha sviluppato un esteso piano di adozioni a distanza.

Oggi IIMC occupa quasi un migliaio di operatori, tutti volontari. E’ attivo con quasi 30 centri che marciano a piena forza con costi ridotti al minimo. I centri si occupano tanto dell’assistenza medica quanto del microcredito, molti hanno scuole (che raggiungono un ottimo livello di preparazione) asili e di tutta una serie di attività che mettono, soprattutto le donne, in primo piano. Ogni anno il numero dei centri aumenta spostandosi più lontano dalla città.

Abbiamo assistito all’inaugurazione di una scuola in una delle ultime isole delle Sundarban. Il finanziamento è arrivato da una simpatica e imbarazzatissima coppia australiana che, dopo due anni di difficoltà e ritardi ha potuto vedere il sogno realizzato: una semplice palazzina a “L” che accoglierà i bambini di una comunità che necessita di più di 5 ore di viaggio per raggiungere la scuola più vicina (nella nostra funzione di “eroici viaggiatori” mi è anche toccato di fare un breve e imbarazzatissimo discorso a braccio). Anche dal punto di vista della raccolta fondi IIMC è attivissimo e questo permette di crescere a vista d’occhio.

Aumentano e si diversificano le iniziative che permettono contemporaneamente di creare posti di lavoro e finanziare le attività: tessitura, sartoria che produce principalmente divise scolastiche (sembra una assurdità, ma è l’unico modo per permettere ai meno abbienti di andare a scuola senza essere trattati da emarginati anche lì).

C’è perfino un laboratorio caseario che fornisce mozzarella e ricotta alla più rinomata pizzeria di Calcutta. Il latte viene fornito da 50 donne che hanno impostato il loro allevamento grazie al microcredito. Il cui fondo è costituito dai risparmi settimanali delle donne di tutte le comunità. L’interesse è solo nominale. Il latte raccolto viene pagato il 20% in più di quanto non “spunti” sul mercato libero. Così si ottengono due risultati: un rapido rientro del credito, e una mozzarella di ottima qualità. Non mi dilungo in altri numeri perché sono disponibili senza difficoltà per chiunque fosse interessato ad avere più informazioni tramite Project for People.

C’è un solo uomo dietro questo successo. Anzi, davanti. La personalità del suo fondatore è talmente strabordante che è impossibile parlare dell’IIMC senza avere in primo piano il “dottor Sujit” (il nome è molto più lungo ma abbiamo deciso di chiamarlo così): visionario e seduttivo affabulatore. Unico vero motore, ispiratore e ideologo.

L’IIMC è nato nell’89 dopo che doc. Sujit, studente di famiglia poverissima si è laureato in medicina grazie ad una borsa di studio, si è specializzato in pediatria in Belgio e ha deciso che la sua professione sarebbe stata sicuramente più utile in India. Ha lavorato per tre anni con Madre Teresa e poi ha aperto un microambulatorio in una stalla ceduta gratuitamente, nei sobborghi meridionali di Calcutta. Da quei giorni ha fatto uso ininterrotto della sua inesauribile forza e del suo fascino raggiungendo risultati imprevedibili. Non è mai stanco, non è mai distratto: fa scelte strategiche, raccolte fondi, tiene discorsi, incontra (con noi) il console Italiano, guida le visite ai centri, accoglie gli sponsor e decide la disposizione dei posti sull’autobus. Ovviamente il suo stile è “indiano”, perciò secondo il già citato punto di vista occidentale, non tutto è perfetto. I tempi a volte sono aleatori, i metodi a volte sembrano più mirati a “fare effetto” che a colpire la causa. Il suo punto di vista è dominante.

Centro nevralgico di tutta l’organizzazione è il cosiddetto “indoor”. Il gruppo di fabbricati in cui, oltre all’ufficio del dottor Sujit e dei suoi più fidati collaboratori, vengono assistite le persone che per diversi motivi non possono tornare a casa: malati sotto terapia, gestanti, orfani, disabili. Tutti gli altri centri, in cui l’assistenza viene fornita ambulatorialmente vengono chiamati “outdoor”.

L’indoor è il luogo in cui siamo stati ricevuti e festeggiati, molto al di là dei nostri scarsissimi meriti. Forse era la moto che faceva un effettone. Ed è il luogo dove l’abbiamo parcheggiata per i giorni di permanenza a Calcutta. L’indoor è anche il luogo di ritrovo mattutino dei volontari. Il luogo di partenza per le visite agli outdoor e dopo qualche ora si finisce per conoscere tutti. Comprese le ragazzine orfane o disabili che sono ospitate nella palazzina dall’altra parte della strada, sotto il cui portico la moto è stata al riparo dal traffico di Calcutta per 5 giorni.

Sarà perché sono un uomo, sarà perché potrei essere il loro nonno, sarà per la moto. Insomma: ho avuto un grande successo. Ogni giorno la moto era un po’ più pulita, probabilmente solo perché le bambine ci passavano sedute sulla sella in due o tre, tutti i momenti liberi. Il momento più imbarazzante è stato la mattina precedente alla partenza, quando mi sono dedicato alla manutenzione. Tutte la bambine mi stavano attorno. Ho pulito la catena. Appena compreso che qualcuno doveva girare la ruota per semplificare l’operazione, una di loro ci si è dedicata con il massimo impegno. Mi passavano gli attrezzi, gli stracci. Mi hanno riparato dagli schizzi di unto, hanno ripulito tutto. E, quando ho chiesto di lavarmi le mani, si è scatenata la ricerca di saponette, asciugamano e consigli molto azzeccati su come pulire il grasso dalle dita. La parte più difficile è stata dire che il giorno dopo partivamo. Erano tristi e offese. Uno strazio.

L’indoor, d’altra parte, è una collezione di storie strazianti. Cito solo una ragazza sedicenne che si è data fuoco (non troppo raro da queste parti) per gravi screzi con la famiglia (forse un matrimonio imposto, forse la forzata interruzione degli studi). Si è salvata, ma con ustioni gravissime. Ora, dopo qualche mese, è in grado di muoversi da sola ed è in attesa di uno sponsor per poter fare ulteriori plastiche. Parlava sottovoce e ci salutava ogni mattina e ogni sera dalla finestra della sua stanza. Altra storia quella della giovane madre abbandonata dal marito perché ha avuto un figlio down. La ragazza è stata abbandonata (con un altro figlio piccolo da accudire) perché la nascita di un figlio down è tradizionalmente da attribuirsi a chissà quale peccato commesso dalla madre. Non riusciremo mai ad abituarci a queste storie. E cominciamo a renderci conto di quanto siamo inadeguati al compito che ci eravamo posti.

Anche qui lavorare è stato impossibile: se vuoi aiutare devi essere almeno un infermiere, o sapere l’hindi, o avere una minima conoscenza dei luoghi. Sennò crei solo imbarazzo e ostacoli.

La nostra posizione di “visitatori” poi, è sempre vista con molta preoccupazione: che cosa racconteremo alla fine? Abbiamo visto proprio tutto? Che impressione ci ha fatto? Siamo rimasti contenti? Abbiamo avuto abbastanza thé?

Non potendo essere utili come collaboratori, abbiamo cercato di renderci utili come malati.

Io, che sono previdente, mi ero già costruito il problema con giorni di anticipo: mi è saltata una capsula dentale una settimana prima. Anna, che è imprevidente ma ha sempre un ottimo “colpo di reni”, si è procurata un’emorragia all’occhio destro. Nulla di grave a parte “l’occhio di Satana” e un po’ di spavento da parte mia. Anche la telecamera ha smesso di nuovo di funzionare ma abbiamo dovuto rivolgerci altrove.

Per entrambi i problemi abbiamo usato l’assistenza dell’outdoor più vicino. Dente reinstallato, occhio visitato e curato. Il piacere è stato quello di condividere un pò dell’attesa con tutti gli altri. Silenziosi, talmente felici di essere assistiti da riuscire perfino a fare la coda senza cercare di passare tutti per primi. E c’era di tutto: musulmani, hindu, intoccabili, anziani e bambini. Silenzio e calma: qui c’è qualcuno che ci risolve il problema. Deve sembrargli il paradiso. Tutto gratuito. Noi abbiamo pagato facendo un’offerta.

Oltre alla opportunità di fare gli assistiti, nel nostro soggiorno a Calcutta ci è stato offerta la possibilità di condividere la sistemazione con i volontari provenienti da tutta Europa. E’ stato molto piacevole, anche se dapprima ci davano tutti del “lei”. Sembrava di essere di nuovo nei campi di lavoro che frequentavamo negli anni settanta. Alcuni dei volontari sono innamorati pazzi di Sujit, altri lo criticano per i metodi non che non sono in linea con la formazione che hanno appena avuto. Altri lamentano, semplicemente, di non essere utilizzati a fondo, di sprecare tempo o di essere sistemati in un luogo non proprio salubre.

E’ possibile e forse anche vero.

Ma questa è l’India: un’efficiente organizzazione senza un frontman di questo tipo avrebbe lo stesso successo? Forse serve come esempio. Forse permette di raccogliere più fondi. Forse qui la fiducia la si dà preferenzialmente a chi ha avuto una visione: ad un illuminato. Del resto, Sujit cita come ispiratori Gandhi, madre Teresa, Tagore, il Dalai Lama, Einsten.

Secondo la tradizione popolare, geni solitari, persone che hanno avuto la visione. Ecco: ho finito.

Grazie ancora una volta per la pazienza. Chiudo con una riflessione e una storiella.

La riflessione: l’IIMC sta diventando grande, complessa, variegata e importante. Credo che il prossimo obiettivo di Sujit debba essere quello di fare in modo che tutto quello che ha fatto, sopravviva a tutto l’attuale gruppo dirigente e continui a crescere (ma so che ci sta pensando).

La storiella è la seguente: Sujit ci ha regalato un paio di magliette realizzate dalle donne che lavorano in un atelier collegato a IIMC. Le abbiamo indossate (non avevamo più nulla di pulito) per fare un giro in città. Ci salutavano tutti. Quando abbiamo preso la metropolitana ci hanno ceduto il posto a sedere. Ci siamo sentiti in imbarazzo per tanto, immeritato, onore, fino a quando, girandomi, ho visto che ci avevano ceduto il posto sulla panca riservata agli anziani.

P.S. Il dottor Sujit mi ha scritto e telefonato diverse volte dopo la nostra partenza per ringraziarci delle nostra visita. Ringraziarci di che?