TERZO DISPACCIO: Un saluto da Varanasi (India)

1 Ottobre 2012

Mi accorgo ora che l’ultimo notiziario di viaggio era datato 1 settembre. Esattamente un mese fa. E’ solo un caso, ma cercheremo di rispettare questo ritmo, visto che la sorte sembra indicarcelo.

Dal nostro punto di vista sembra che sia passato un anno.

Vi abbiamo già informato sulla visita al progetto di Nowshera in data 9 settembre e sul nostro ritorno a Islamabad, sulla motorway, senza altra autorizzazione che le sollecitazioni dell’intelligence Pakistana. Poi cosa è successo?

Superare lo chock di sentirci dei sopravvissuti ci ha consigliato di prenderci un giorno di sosta a Islamabad e, per non restare troppo con le mani in mano, ho deciso di fare le cose in regola. Per percorrere la motorway occorre l’autorizzazione? Bene: chiediamola.Il percorso fino a Lahore (400 km) sarà più veloce e sicuro.

Con l’insostituibile assistenza dei nostri amici Pakistani ci informiamo sulla prassi da seguire: sembra facile. Basta andare all’ufficio centrale della Traffic Police ed essere in regola con 24 norme. C’è un po’ di tutto: cilindrata minima del motoveicolo, abbigliamento, luci, regole generali di velocità, circolazione, luci, abbigliamento e chissà che altro. Siamo a posto con tutto. L’ufficio in cui inoltrare la domanda e ottenere la conseguente autorizzazione è di fronte alla guest house. Anche questo è un buon segno. Perciò alle 8.30 ci presentiamo al cancello. Una pletora di militari armati fino ai denti e svogliati fino alle orecchie ci rimbalzano numerose volte. Alla fine anche Sad, che fa della pazienza una regola di vita, alza la voce e fa capire che “conosce qualcuno”. Otteniamo l’autorizzazione ad entrare. Riusciamo a salire al primo piano. Divani in pelle bianca. Primo thè. Dopo un’oretta ci riceve un ufficiale di bell’aspetto e sicura carriera. L’Haji (il capissimo) non c’è: è in riunione ad altissimo livello, ma possiamo dare inizio alle pratiche. Al suo arrivo firmerà il permesso. Ok. Mi ritirano tutti i documenti, li fotocopiano e mi fanno firmare tutte le fotocopie. Per quanti giorni serve il permesso? Diciamo due. Ok. Mi fotografano una decina di volte, senza essere mai soddisfatti del risultato. Alla fine concordiamo su una foto che mi ritrae in maniera riconoscibile. Altro thè.Dopo un paio d’ore mi fanno vedere il permesso: valido per oggi e domani. Qualunque ragazzino dotato di una stampante casalinga potrebbe fare di meglio, ma se va bene per loro… Altro thè. Altra attesa. Proviamo a chiedere se, visto che il permesso è pronto, lo si può firmare e lasciarci andare ai nostri impegni. Assolutamente no! Per la MIA sicurezza il permesso deve essere firmato dall’Haji in persona. Non indago su come la SUA firma possa avere qualche influenza sulla MIA sicurezza. Altro thè.

Quando arriva l’Haji? Ora è in riunione con il ministro. Alle tre la situazione si fa un po’ pesante, perciò ci invitano a pranzo. Sala riunioni, altri divani in pelle bianca, aria condizionata polare, otto persone. Sad, io, l’ufficiale e cinque funzionari di alto livello. Conversazione sui successi commerciali italiani. Pollo con intingolo, chapati. Ne tovaglioli ne posate. Mi sbrodolo come un neonato. Alle quattro chiediamo notizie, mentre tutti si aggiustano la cravatta e si stirano i pantaloni stazzonati. L’Haji sta arrivando! Dopo mezz’ora tutti si stravaccano di nuovo. L’Haji per ora non arriva: altro meeting ad alto livello. Si discute sull’opportunità di farci un altro permesso per portare il primo permesso a casa dell’Haji ed avere la sua firma direttamente (quando arriverà a casa, naturalmente). Ma l’idea non decolla. Alle sei, dopo 10 ore di thè e aria condizionata, ci dicono che l’Haji cenerà con il ministro e che per oggi non verrà. Se ci ripresentiamo domattina alle 10, “sicuramente otterremo la sua firma”. Torno in albergo e faccio i bagagli. Il permesso ormai è stato usato per metà della sua validità e non l’ho neppure avuto in mano. Faremo la GT road.

Detto per inciso, ho passato una giornata così demenziale che non riesco nemmeno ad essere arrabbiato per il tempo perso.

Ringrazio Sad.

La mattina dopo partiamo per Lahore molto presto. I primi 300 km sono piuttosto scorrevoli, poi ci infiliamo in una serie di paesoni sempre più congestionati che ci preparano all’ingresso in città. Abbiamo sempre la nostra scorta di motociclisti locali che viaggiano a sei, sette millimetri da noi cercando a tutti costi di dimostrare che le loro sfiatate motorette vanno “più forte”. Un paio si schiantano a terra nel tentativo di dare dimostrazione tangibile della loro capacità, con il rischio di far cadere anche noi.

Comunque arriviamo a Lahore in sei ore, neppure così stanchi. Precisazione: siamo stati a Lahore per quasi 10 giorni quattro anni fa. E’ una città enorme e congestionata, ma relativamente semplice. La guest house che abbiamo scelto è a poche centinaia di metri da quella dove risiedevamo allora, la zona è conosciuta e facile da raggiungere: si supera il ponte, si costeggia il forte e poi si va praticamente sempre diritti. Raggiunto Liberty Market si fa una leggera curva a sinistra, c’è la sport citadel e siamo arrivati. In caso di necessità basta chiedere: MM Alam Street la conoscono anche i cani.

Perfetto. Salvo che il ministro di non so che, ha rilevato che la circolazione di Lahore lascia un po’ a desiderare. Perciò tutta la strada che dobbiamo percorre e trasformata in un cantiere. Impossibile seguirla. L’unico modo è zigzagare per i vicoli laterali strettissimi, dirupati e pieni di carrettini, biciclette, casse, buche e scortati, questa volta fortunatamente, dalla solita folla di motorette. Per arrivare alla meta ci mettiamo altre due ore. Temperatura 37°. La ventola urla, la moto pesa sempre di più, la glicemia scende a picco. Quando ci fermiamo a prendere fiato siamo a 500 metri dalla meta. I fiammiferi che tenevo in tasca si sono sciolti per il sudore. Ma siamo arrivati.

Una giornata a disposizione: tuctuc per ritornare al forte. Anna si ferma a consultare un cartello che riporta le notizie principali sui monumenti. Al suo fianco un giovanotto in stretto abbigliamento musulmano.

Gentilissimo chiede da dove veniamo: Italia. Ah, Italia: dov’è? In Europa. L’Europa è uno stato degli Stati Uniti? No! E’ dalla altra parte dell’Atlantico, vicino alla Francia (chissà perché pensiamo che la Francia sia più nota). Lui non sembra molto convinto.

Vistiamo minuziosamente il forte, la moschea, la città vecchia, Delhi gate. Fino a quando Anna comincia ad averne abbastanza. Peccato: a mio parere Lahore è una delle più belle città di quest’area. Trattiamo un immediato ritorno via tuctuc in cambio di pranzo in MM Alam street. Il tuctuc ce lo chiama un vigile che contratta anche il prezzo della corsa al ribasso. Alla contrattazione partecipa una piccola folla che accusa il guidatore di tentata truffa: ha chiesto 150 rupie (1,5€) mentre il prezzo corretto è 80 rupie.

Il giorno dopo è il momento di passare in India. Partiamo all’alba, per evitare il traffico: pioviggina. Usciamo lungo una via secondaria poi riprendiamo la GT road in direzione di Wagah Border: l’unica frontiera aperta per i turisti. La tappa di oggi è di soli 80 km. In teoria una cosa di un paio d’ore. In realtà ce ne mettiamo 7. Fra il traffico di uscita da Lahore, la mancanza di corrente alla dogana Pakistana, l’incapacità dell’impiegato Indiano, le pratiche cervellotiche, il traffico in entrata a Amritsar e la poggia, arriviamo alle 2, fradici. Ma siamo a venti metri dal Tempio d’Oro e l’albergo che abbiamo scelto ha una bella terrazza che permette una vista che lascia senza fiato. Anche a scapito della vista, consiglio di scegliere le camere che danno sul retro. Sono anguste, mal tenute e claustrofobiche ma silenziose: il salmodiare dei fedeli Sikh e il rumore della folla non si interrompe mai.

Ovviamente ci godiamo la giornata successiva in giro per la città. Molto tradizionale, piena di pellegrini. Il Tempio d’Oro merita diverse ore di visita e di relax. L’atmosfera all’interno è piacevolissima ed estremamente calma. La folla gira in senso orario attorno al lago e poi percorre il lungo ponte che permette di raggiungere il tempio che si trova al centro. Unico divieto: avvicinarsi troppo all’acqua o immergersi. Tutto il meccanismo del tempio si regge sul lavoro volontario di migliaia di Sikh che lo conservano con cura minuziosa, gestiscono una cucina che eroga 70000 pasti gratuiti e un ostello con migliaia di posti letto. Vedere tutti questi corpulenti e barbuti volontari (molti assistiti dai figli maschi, con la testa avvolta in una calzetta con un ponpon in cui sono raccolti i capelli) attendere al loro impegno con tanta gentilezza, fa quasi tenerezza. Soprattutto ricordando quanto sono famosi per le loro attitudini guerresche.

Ma non c’è solo questo da vedere: la città stessa è un monumento al disfacimento e ad antichi fasti.

La giornata di libertà passa presto. Da qui in avanti il percorso è nuovo: dobbiamo dirigerci verso il Kashmir, a nord e, raggiunta Srinagar, proseguire verso est in direzione di Leh. Da Leh il percorso piega di nuovo verso sud: dobbiamo attraversare un’infinità di passi fra i 4000 e i 5336 metri, per raggiungere Manali. Poi proseguiremo verso sud (Chandigarh e Delhi) e poi di nuovo verso est, per raggiungere la frontiera con la propaggine occidentale del Nepal. Un bel programmino, da fare in tempi contingentati visto che abbiamo appuntamento con Save the Children alla frontiera di Bambassa la sera del 23 settembre. La tappa da Amritsar a Srinagar non sembra proibitiva: 440 km di strada normale. Certo, in India non ci sono strade normali, ma questa sembra una strada importante e dovrebbe essere in buone condizioni.

Intanto parliamo delle condizioni: la prima parte è ragionevolmente tenuta e ragionevolmente trafficata, ma appena attaccate le prime salite il fondo peggiora e aumenta in maniera esponenziale il numero dei camion. In più si aggiunge un numero ridicolo di colonne militari. Il Kashmir è sempre stata una zona calda, contesa fra India e Pakistan. Ci sono state numerose guerre e l’India mantiene in questa zona più di un milione di soldati, su una popolazione residente (in gran parte musulmana e perciò filo Pakistana) di 5 milioni. Il compito di questi militari in tempo di pace sembra sia quello di sprecare benzina intasando le poche strade praticabili. Inoltre hanno la riprovevole abitudine di fermarsi dove gli pare e di improvvisare posti di blocco il cui compito è quello di rendere le strade assolutamente impercorribili. Anche per noi, che ci troviamo a viaggiare a 15 km all’ora. Mangiando metri cubi di polvere e fumo nero, nel tentativo, spesso frustrato di superare colonne di centinaia di camion. In più, siccome il problema è nelle due direzioni, rischiamo di essere spazzati via ad ogni curva cieca da qualche camion che si avventura in sorpassi suicidi. Rischiando la pelle, si può tenere una media di circa 20/25 km all’ora. Perciò, dopo 10 ore di fatica siamo più o meno a metà strada. Non ci resta che cercare di fare un tappa intermedia. Arrivati al passo cerchiamo da dormire. Troviamo una stanza che forse ha visto tempi migliori, dotata di letto matrimoniale rotondo, nel quale dormiamo nei nostri sacchi a pelo. Non si sa mai… La mattina dopo ripartiamo per Srinagar dove arriviamo nel primo pomeriggio. 440 km, 17 ore. Ci prendiamo un giorno anche a Srinagar, che ha una parte molto turistica lungo il lago e una molto tipica, molto lontano dal lago. Le famose House Boat sono carissime e poco adatte a noi che vogliamo avere la moto sott’occhio. Perciò troviamo un alberghetto lungo il lago e andiamo a vistare la città. Una scarpinata di diverse ore, premiata dalla possibilità di visitare diverse antiche moschee, usualmente vietate ai non musulmani. Ci abborda un sacco di gente denunciando il fatto di essere costantemente vessata da esercito e polizia e di sentirsi in stato di occupazione permanente. Alcuni accusano il governo indiano di aver commissionato la distruzione di una moschea, le cui rovine bruciacchiate svettano nella piazza centrale. Una giornata molto interessante.

E si riparte. Raggiungiamo Kargil nel tardo pomeriggio dopo una bella serie di passi, su una strada asfaltata per non più del 50% e con le rampe dello Zaji La (3529 metri). Il giorno successivo ci sorbiamo una seconda dose di polvere e gas di scarico sulle rampe del Namika La (3880 metri) e del Fota La (4108 metri). E finalmente arriviamo a Leh. Io non mi sento troppo bene. Penso che siano le polveri che ho inalato per diversi giorni, oppure la fatica, ma mi becco uno dei miei famosi raffreddori. Non ci impediscono di visitare la città minuziosamente, ma ci obbligano a due giorni di sosta, di cui uno “forzato”. Ne approfitto, fra uno starnuto e l’altro, per prendere tutte le informazioni che riesco sulle tappe che ci aspettano.

Sono circa 500 i km che separano Leh da Manali. Lungo i quali si incontrano 5 passi: Taglang La (5330 mt), Lachalung La (5085), Baralacha La (4883), uno innominato sui 4600 e per ultimo il famigerato Rohtang La, di soli 3975 metri, ma pieno di frane e di fango.

Superati gli ultimi paesini a valle di Leh, ci sono 275 km senza centri abitati e senza benzina. Uniche possibilità per passare la notte di “midway” sono i campi tendati a Pang o a Sarchu. Pang è più vicino, ma il campo è peggiore e la quota è di 4800 metri. Sarchu è meglio attrezzata e la quota è di 4400. Più in basso si dorme, meglio è: ci sono meno rischi di mal di montagna. Abbiamo anche la fortuna di poter approfittare di Leh (3600 metri) per acclimatarci meglio. Così, dopo i canonici due giorni si sosta, ci prepariamo per la partenza. Serbatoi pieni, catena pulita e controllata, pressione delle gomme ok. Olio e acqua a posto. Però la mattina piove. Ma come è possibile? Le previsioni davano tempo “poco nuvoloso” su questo lato. Un po’ di poggia sul lato di Manali, ma ci penseremo dopo. Purtroppo le previsioni del tempo indiane sono “opinioni” e non fatti. I fatti sono che piove. Ci pensiamo un po’, poi dal cielo occhieggia qualche traccia di sereno e partiamo. Splendida giornata: panorami indescrivibili, che lascio alle fotografie il compito di illustrare. Superiamo il Taglang con l’unica delusione di scoprire che è alto “solo” 5316 metri. Molto fiatone ma nessun sintomo di mal di montagna. Poi proseguiamo nel paesaggio lunare fino al Lachalung con una terrificante gola per raggiungerlo e 22 tornati per scendere sull’altro lato. Raggiungiamo Pang, la superiamo e, dopo aver attraversato un ponte in rovina, arriviamo a Sarchu. Con noi arrivano due francesi e altri tre ragazzi tutti su Enfield acquistate o affittate. Hanno una jeep al seguito, poco dopo arriva anche un pullmino con una gruppetto di ragazzi “nordici”. Serata smagliante di stelle, fredda all’inverosimile. Ceniamo e ci vengono assegnate le rispettive borse dell’acqua calda. Andiamo a dormire verso le 7.30: non c’è null’altro da fare. Infilati nei sacchi a pelo dormiamo un po’, ma è difficile dormire per 12 ore filate. Perciò mi sveglio presto. Fa molto freddo. Sento i passi sul terreno gelato ma non ho voglia di andare a vedere l’alba. Poi una serie di strani rumori mi fanno venire un orrendo sospetto. Salto dal letto e dò un’occhiata fuori: nevica. Si può dire “nevica a dirotto”? Beh. Non nevica a larghe falde. L’unico termine calzante è “a dirotto”. Ci sono giù almeno 20 centimetri, in costante aumento. Per uno strano fenomeno la strada rimane pulita, almeno per ora. Temperatura -4°. Consulto fra i vari equipaggi. Siamo a 4500 metri e ci aspetta un passo sui 4900, e poi una serie di altri minori. Per raggiungere Keilong, il primo paesino, ci vogliono circa 130 km. La vedo brutta. Ma alcuni sono giovani, altri piuttosto inesperti. Decidono di tentare, nella speranza che il tempo migliori dopo il passo. Mah.

Insomma partiamo e riusciamo a fare, a costo di sofferenze inaudite, circa 30 km. La situazione meteorologica non migliora ma peggiora. La neve attacca sulla strada, che, per di più, è sterrata, ripida e esposta al vento. Scarichiamo i bagagli e i passeggeri sulla jeep. Sgonfio le gomme, ma si va avanti a fatica spingendoci l’un l’altro. Le Enfield perdono olio e noi perdiamo il fiato. La situazione si risolve con il primo malore. Il francese, anzianotto e poco attrezzato sta male. Non resta che raggiungere il primo camion bloccato in un tornante, trattare il costo del trasporto delle moto fino a Keilong e caricarle tutte sul cassone. Tutto a braccia, e il cassone è alto circa un metro e mezzo. Mi rimane solo la forza di legare al meglio la moto e rifugiarmi in cabina. Dopodichè rimaniamo fermi per alcune ore in attesa che salga qualche camion dall’altro lato e verso le cinque di sera cominciamo a scendere verso Keilong. Il viaggio è anche funestato da una foratura, con conseguente sostituzione della ruota del camion. Arriviamo Keilong a mezzanotte. Scarichiamo le moto (sempre a braccia) e andiamo a dormire. Il giorno dopo la situazione è la stessa perciò infiliamo due moto su una jeep e ci facciamo portare a Manali. A metà strada rischiamo seriamente di dover caricare anche la jeep su un altro mezzo per tirarla fuori dal mare di fango in cui siamo costretti a viaggiare. Anna e la francese sono in cabina con l’autista mentre noi maschi stiamo nel cassone con le moto. Che vanno rilegate ogni 10 km per gli scossoni che prendono. Io faccio tutto il viaggio con il casco e la tuta antipioggia addosso.

Arriviamo a Manali molto, molto tardi. Ormai siamo fuori tabella di marcia di almeno tre giorni. Perciò rimonto la moto, controllo che non abbia subito troppi danni (qualcuno c’è, ma nessuno importante) e ripartiamo subito in direzione Delhi. Anche qui strada brutta e trafficata: la sera non riusciamo neppure a raggiungere Chandigarh. Altro ritardo. Ma siamo anche molto stanchi, così prendiamo una decisione sgradevole: ci fermeremo a Chandigarh nel pomeriggio e domani proseguiremo verso Bambassa senza fermarci a Delhi. Non abbiamo il tempo di visitarla e infilarci nel suo traffico solo per passarci la notte non ha senso. Il pomeriggio a Chandigarh è una boccata d’aria. La città, progettata da LeCorbusier dimostra come una città ben progettata possa rendere ordinato anche il traffico indiano. Incredibile: qui si fermano ai semafori rossi e se hai la precedenza, quasi te la concedono. Il progetto non è stato portato a termine con la volontà necessaria me ci sono notevoli tracce di ottima architettura. Dopodichè ci infiliamo sulla motorway e ci somministriamo i 600 e rotti che ci separano da Bambassa. Fa un caldo terribile, ancora più terribile perché tre giorni fa stavamo sotto zero a spalare la neve. L’attraversamento di Delhi è un’esperienza cosmica anche se lo facciamo senza praticamente uscire dall’autostrada. Ci sono delle code così lunghe e così “stabili” che i venditori di “generi vari “ hanno installato delle piccole bancarelle e girano per la coda offrendo acqua, bibite gassate e frittelle. Fatte sul posto e ben condite dai gas di scarico.

Così, in perfetto orario arriviamo a Bambassa. Sgarruppata cittadina di confine da cui, nascosta dietro una bancarella, parte il tratturo che porta in Nepal. E’ il compleanno di Anna. Tutto questo in soli 23 giorni.

Ora tocca a Save the Children!

Ciao.

Anna e Fabio.

1bike2people4aid.it

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