SECONDO DISPACCIO DA NOWSHERA (PAKISTAN)

Partiamo per Nowshera, anzi no.

Partiamo per Peshawar: a Nowshera non c’è nessun posto per dormire.

Perciò ci infiliamo sulla Motorway, rigorosamente vietata alle moto di cilindrata inferiore a 600 cc, e anche a tutte le altre, senza un permesso che può essere rilasciato solo dal comandante generale della Polizia Stradale Pakistana, previa richiesta. Ma, se il poliziotto di guardia alla toll plaza, decide, come nel nostro caso, che “viaggiamo per una buona causa” si può ottenere un permesso amichevole. Perciò partiamo.

Arrivare a Peshawar è una passeggiata, rinfrescata da un buon numero di acquazzoni. Alla toll plaza di arrivo, pagate le 185 rupie, ci ferma la security: dove andate? Con chi? Perché? Quando? Insomma un sacco di domande, anche se tutto si svolge a livello assolutamente amichevole. Chiamano Manzur per controllare che sia tutto vero, poi ci danno le indicazioni per raggiungere il Bus Terminal della Daewoo, il nostro meeting point. Ovviamente.

Appena finita l’autostrada, che nessuno prende perché costa, si ritorna nel traffico normale. Che di normale non ha quasi nulla. Ci infiliamo su un ponte facendo a spallate con i nostri vicini, scendiamo sotto un cavalcavia, sempre a passo d’uomo. Quando ho un secondo per alzare gli occhi, mi trovo davanti l’ampio posteriore di un bus Daewoo. Perfetto: ci incolliamo qua dietro e lui ci porta al casa sua. Difatti, dopo circa un’ora di ingorgo, entriamo nel terminal.

Ovviamente è quello sbagliato: quasi tutti i bus a lunga percorrenza sono Daewoo, ma solo alcuni appartengono alla omonima compagnia di viaggio. Nessun problema: è un terminal a gestione familiare. Si occupano loro di chiamare Manzur, chiarire il disguido e dargli le indicazioni per venirci a prendere. Mentre aspettiamo, ci presentano tutta la famiglia: fratelli, cugini, figli e anche il nonno, patriarca dell’azienda. In famiglia non ci sono donne. Arriva Manzur e ci attraversiamo tutta la città per andare alla guesthouse dove alloggeremo. Peshawar è bellissima: vediamo il bazar (quello dove vanno tutti a sparare una raffica di Kalashnikov), la cittadella el’università. In giro c’è di tutto: carretti, tricicli e motorette guidate da strani personaggi vestiti con la shalwar-camiz e quello strano zuccotto che davanti pare mangiato dai topi. C’è in giro perfino qualche donna: alle più moderne si possono vedere gli occhi. A tutte le altre neppure quelli.

Arriviamo alla guesthouse: zona di massima sicurezza. Salutiamo Manzur un po’ meglio, facciamo un po’ di presentazioni e cerchiamo di gestire il reportage che ci occuperà nei prossimi giorni. Lavoriamo tutto il pomeriggio per capire il problema e immaginare come rapportarci con loro. Non sarà facile: da una parte il nostro arrivo ha titillato la voglia di presenzialismo di qualche personaggio pubblico, dall’altra ci sono i soliti problemi di ordine culturale. Uno per tutti: sarà accettabile la mia presenza in un orfanotrofio femminile? Conosco bene la sensibilità locale, ora anche più delicata. dopo gli interventi americani nel sud e nord Waziristan.

Di certo la nostra partecipazione alle attività è assolutamente fuori discussione. Perciò dobbiamo puntare molto di più sul rapporto umano e sulla disponibilità a farci raccontare tutto dai protagonisti. Cerco ora di definire l’intervento. Nowshera è una cittadina agricola a circa 40 km a est di Peshawar. Tre anni fa è stata colpita da una devastante inondazione che l’ha praticamente spazzata via, coprendola con “25 piedi di acqua”. Nella zona erano attivi due progetti pilota di iniziativa governativa: un istituto per bambini con disabilità fisica o mentale e un orfanotrofio femminile.

Due strutture piccole, rudimentali e insufficienti anche a soddisfare le necessità locali, ma estremamente utili per accogliere un piccolo numero di bambini, finiti sotto 13, 14 piedi d’acqua. Gli edifici si sono salvati, ma suppellettili, attrezzature e servizi erano completamente distrutti.

Perciò è intervenuta Intersos.

È stata pompata via l’acqua e spazzato via il fango. I locali sono stati riattati, l’arredamento recuperato e sostituito con materiale nuovo o donato. I locali sono stati imbiancati, i bagni rifatti.

Per la parte della struttura dedicata ai disabili, sono state portate alcune semplici attrezzature per il recupero fisico: qualche cyclette, tre threadmills, un po’ di vogatori. Sono arrivati anche gruppi elettrogeni, un paio di frigoriferi e un computer. Mediafriends ha donato un pulmino per facilitare il “pick and drop” dei disabili.

Il compito di Intersos è finito a marzo 2012 e i centri sono tornati in funzione. Di nuovo interamente gestiti dalla autorità locali.

Bene. Sembra tutto a posto.

Poi siamo arrivati noi: due persone comuni e senza esperienza. E abbiamo visto una realtà in cui sembra che il lavoro sia ancora tutto da fare. Voglio trascurare ogni difficoltà di carattere culturale: è ovvio che si devono rispettare usi e costumi locali, compresi quelle che non sono in linea con il nostro punto di vista. Per fare qualche esempio: la rigida separazione sessuale, la convinzione che alle donne basti una cultura minima, che si limita alla capacità di fare qualche lavoro domestico in più e saper leggere e scrivere sia una capacità che non sempre viene ritenuta necessaria o consentita. Capisco, data la povertà e la durezza della vita, che i disabili siano un peso insostenibile per quasi tutte le famiglie, soprattutto se sono donne.

Però.

Nowshera è una fila di alti muri di mattoni, in cui aprono rare porte di ferro. Nessuna finestra, niente illuminazione pubblica, fognature a cielo aperto. Polvere, bufali, biciclette e un milione di bambini che ti guardano stando dall’altra parte della strada. Le due palazzine che ospitano i due centri sono così. Fra una e l’altra corre un vicolo stretto fra due alti muri.

All’interno sono meno tristi: entrambe hanno un porticato su un lato, in cui si aprono alcune stanze che danno sul cortile. Di fronte il solito altissimo muro.

Per questioni organizzative visitiamo prima l’orfanotrofio femminile. Ospita 35 bambine o ragazze dai 5 ai 17 anni. Le camere da letto sono solo tre e sono della dimensione della vostra camera da letto, dove sono stipate 5 brande a castello. La notte viene aggiunto qualche materasso nel pochissimo spazio libero. Impossibile uscire o entrare dopo che tutte le ospiti si sono accomodate. C’è solo un bagno, una stanza per il guardiano che vive qui con la famiglia, l’ufficio della direttrice e due aule in cui due maestre tengono corsi di ricamo, cucito e altre arti “donnesche”. In fondo una piccola cucina. Tutto qua. Difficile pensare cosa voglia dire viverci per una dozzina d’anni. Le bambine indossano una tunica azzurra lunga fino ai piedi e un foulard bianco che copre loro la testa. Ognuna lo porta secondo le usanze del suo gruppo familiare. La direttrice ci riceve e parla subito chiaro. In Pakistan non c’è nessun tipo di assistenza pubblica, almeno ad un livello accettabile. Perfino lei deve portarsi qui la figlia più piccola perché non ha modo di trovare chi se ne prenda cura (e forse fa semplicemente parte dei suoi DOVERI di donna Pakistana).

Chiediamo se la struttura soddisfa le necessità del territorio. La risposta è recisa: no. Hanno più di 100 richieste e sono costretti a rifiutarle, anche sapendo a quali problemi andranno incontro. Le due palazzine in cui sono sistemati i centri, sono in affitto. Perciò ogni progetto di ampliamento si scontra con la certezza che appena ampliate, verranno reclamate dal proprietario che non aspetta altro. Mancano libri, insegnanti competenti, corrente elettrica, assistenza medica costante, spazio, denaro.

Qui cito una possibilità comune ai due centri: lo stato (lo ha confermato il supervisore) è disposto a donare il terreno su cui edificare due edifici adeguati. Ma non fornisce i fondi per la loro edificazione. Perciò tutto rimane fermo.

Giriamo per le classi. Ovviamente sono mischiate ragazze di età molto diverse. Al mio inopportuno ingresso, si alzano, recitano tutte insieme il rituale “salam aleycum” e si coprono il volto. Le maestre si girano dall’altro lato. Difficile avere un contatto. Decidiamo che è meglio io resti fuori. Le fotografie le fa solo Anna. Le cose vanno un po’ meglio. Nel frattempo io continuo l’intervista con la direttrice che mi offre the al latte e pollo fritto. L’accostamento è un po’ estremo. Chiedo un po’ di notizie su “cosa significa essere orfano a Peshawar”.

Beh, dipende da un sacco di fattori. Il primo è il sesso.

Qui le famiglie sono molto numerose e unite, perciò gli orfani vengono tradizionalmente accolti nelle famiglie dei fratelli del padre. Ovviamente se hanno la capacità di mantenerli. Di preferenza trovano posto i maschi: sono produttivi (le donne qui di solito non possono lavorare) non hanno bisogno di dote e possono sempre emigrare. Le femmine sono un peso. Perciò vengono portate qui. In genere la direttrice rifiuta quelle la cui famiglia vorrebbe sbarazzarsi ma è in grado di mantenere. Accoglie solo quelle per cui non c’è altra soluzione, ma non può aderire a tutte le richieste.

Questo vuole dire che quasi tutte hanno una famiglia fuori di qua? Si, per la maggior parte e ogni tanto vanno a vistarla. Ma questo apre una serie di problemi igienico sanitari. Le bambine escono di qua sane e tornano malate a causa, perloppiù, delle condizioni igieniche in cui vivono i loro parenti. Provo a immaginare le condizioni di vita di una famiglia povera nel KPK. Anche se ho girato parecchio per queste aree forse non sono mai entrato in casa di un povero. Mi sono bastate le case di qualche rappresentante della middleclass per farmi stare male.

E la famiglia come le considera? Bene: sono beneducate, pulite, più colte e più sane della media. Sanno tutte leggere e scrivere, sanno ricamare (sfodera il suo libro di “punto croce” dei tempi della scuola) e sanno fare anche altre cose molto apprezzate.

Provo a chiedere quale futuro abbiano, scoccati i 17 anni, che le passano dalla condizione di orfanelle ad una condizione che non ho ancora capito. La risposta è vaga: tornano alle loro famiglie. Non mi dice a fare cosa: l’unica opportunità è il matrimonio. Ma la loro storia è così atipica in una cultura tradizionalista…

La direttrice sottolinea che questo, che era un centro pilota, è stato da poco trasformato in centro stabile e c’è l’intenzione di esportarlo in tutto il paese. Se l’intenzione si concretizzerà è difficile da sapere. Anche questo centro sembra avere il fiato corto. Ma io ragiono sempre da occidentale…

A questo punto mi do’ la pugnalata finale. Fuori dalla porta vedo le ragazzine che si prendono la ricreazione. Le più grandi si occupano delle più piccole, ridono, mangiano qualcosa. La presenza di Anna è tollerata. Posso intervistare qualcuna della bambine? Potrebbe aiutarmi a capire qualcosa di più. Certo, se riesco a trattenere le lacrime, mi risponde la direttrice. Ci proverò.

La prima è Haleema. 14 anni. Ammessa in quest’istituto quattro anni fa. E’ carina, ha gli occhiali che nascondono un leggero strabismo. Attentamente coperta con il velo, ma si scioglie subito e parla con una bella verve. Prima di tutto chiedo la sua storia alla direttrice: non posso certamente chiedere a lei una cosa così delicata. In poche parole: il padre ha ucciso la madre. I fratelli della madre hanno ucciso il padre per vendetta. Ha cinque fratelli sistemati in altri orfanotrofi. L’unico parente che frequentano è un vecchio zio che non può mantenerne nessuno. Lo incontrano solo nelle occasioni importanti.

Beh, non mi aspettavo tanto. Chiedo a Manzur di scrivere il suo nome e qualche dato personale. Scrive anche la sua storia, ma in versione censurata: genitori entrambi uccisi per vecchie inimicizie familiari.

L’intervista è di repertorio: stai bene qui? Certo. Ti manca la tua famiglia? Un po’. Tu sei molto brava: cosa ti piacerebbe fare? Continuare a studiare. Sorride dietro agli occhiali e ha una vocina simpatica. Ha 14 anni e la vita non le ha risparmiato niente. Altro che piangere.

Ne chiamano un’altra: Reehana. 8 anni. La famiglia è emigrata qui dal Beluchistan. Questa è una notizia: ci sono persone che vengono a Chitral per trovare una vita migliore. A dirlo pare impossibile. Reehana è bellissima: ha il naso a patatina, gli occhi chiarissimi. Si agita e si torce come quando mi interrogavano in matematica. Le ho scattato 50 foto ma sono tutte mosse. Tiene il foulard in un altro modo: appoggiato sulla testa e ne trattiene una cocca fra i denti. Ha la vocina rauca dei bambini troppo vivaci. E’ qui da tre anni.

La madre è morta quando lei aveva sei mesi per complicazioni attribuite al parto. Nei successivi sei mesi, anche il padre, affetto da epatite (molto comune da queste parti) è morto. E non c’era nessuna famiglia a cui fare riferimento. Solo una sorella del padre, molto giovane. Sola anche lei. Negli ultimi tre anni Reehana l’ha vista solo una volta. E aspetta la prossima. Le chiediamo quando si aspetta di rivedere la zia. Forse fra un anno. Mentre riprendo fiato le bambine stanno lì, sedute per terra nel loro dormitorio. La direttrice mi guarda in silenzio.

Passiamo dall’altra parte: quella dei disabili. Prima perdiamo un po’ di tempo con il supervisor, che arriva da Islamabad apposta per noi (o forse per lui: è un tipo molto vivace e propenso a rilasciare lunghissime interviste) ed è arrivato con molto ritardo a causa della pioggia. Ci racconta tutta la storia dell’ampliamento impossibile, del terreno concesso dallo stato, di quanto questi progetti siano considerati eccellenti e da imitare. E di quanto tutto ciò sia difficile da fare. Fra una ripresa e l’altra mangia qualche coscia di pollo e beve the al latte, molto zuccherato

Si vede che sente proprio il compito di farci capire che servirebbero altri soldi. Ma tocca l’argomento solo alla fine e con un tatto che non ti aspetti da un tipo così sanguigno. Me lo vedrei di più con in mano un Dragunov. Forse ne ha uno in macchina. Intanto i ragazzini sono a lezione. Mi sorprende che da questa parte siano ammessi sia maschi che femmine.

La cosa che si nota di più è l’incidenza mostruosa di affetti da conseguenze della poliomielite. Per dire la verità le tracce di questa malattia, da noi completamente scomparsa, sono visibili in una parte rilevante della popolazione. Ma si vedono persone che hanno riportato danni più “leggeri”, se questo aggettivo è ammissibile.

Qui invece ci sono i “disabili”. Perciò coloro che anche in un mondo come questo, sono considerati incapaci di sopravvivere. La scommessa di questo centro è di fare in modo che non siano un peso per le loro famiglie. Perciò si punta sul servizio: ogni mattina il pulmino di Mediafriends va a prendere quelli che non sarebbero in grado di raggiungere la scuola e li riporta a casa la sera. Per tutto il giorno sono assistiti e sono previsti anche 20 minuti di attività fisica sugli attrezzi.

Anche qui i problemi sono gli stessi: spazio insufficiente, richieste superiori alle possibilità di accoglienza (la valutazione delle richieste porta a considerare sufficiente una disponibilità di almeno 100 posti) limitata a non più di trenta posti.

Non mi pare che l’insegnamento tenga conto delle ovvie differenze fra bambini disabili fisici e mentali. Sono tutti insieme nelle due classi, e non mi pare che ci sia anche un minimo piano educativo.

Ho molti dubbi che ci si possano aspettare dei risultati. Del resto, se l’obiettivo è quello di ridurre il peso per le famiglie, il risultato c’è. Ma solo per il periodo in cui di loro si occuperà questo centro. Poi tutto tornerà esattamente come prima.

Gli insegnati hanno evidentemente un basso livello di specializzazione ma farli arrivare in una zona così periferica e pericolosa è molto difficile. Gli ultimi concorsi, se ho capito bene, sono andati deserti. Perciò il corpo insegnate pare piuttosto raccogliticcio e non sembra si aspetti chissà quale risultato dalla propria attività. Pare che si accontenti di tenerli occupati. Poca pulizia, poca cura delle persone, poca competenza.

Il Pakistan è stato recentemente classificato al 122 posto fra i paesi più corrotti del mondo, in un panel di 140. Perciò occorre ricordare che la scuola, oltre ad essere un servizio, è anche un lavoro Anche la riabilitazione fisica è condotta con un certo spirito garibaldino.

Fra le nostre due visite consecutive, gli attrezzi sono stati spolverati e il secondo giorno a tutta la scolaresca sono stati inflitti 20 minuti di movimenti scomposti, che tutti hanno subito volenterosamente.

Diciamo che è un gioco, che forse a qualcuno fa anche bene. Che sia una terapia non posso davvero affermarlo.

Però.

Però non c’è un solo fisioterapista a disposizione. Mi dicono che Intersos ne aveva arruolato uno che ha lavorato, con buoni risultai per un paio d’anni. Ma, appena finiti i fondi si è cercato un posto remunerativo e meno isolato. Tutti giovani che hanno una formazione emigrano: Inghilterra, Dubai, Abu Dhabi, Oman.

Sono piuttosto triste. Anche qui provo un paio di interviste.

Attiya, una ragazza di 9 anni. Entrambi i piedi malformati. Dichiara di essere contenta: quando è entrata qui non riusciva assolutamente a camminare, ora si muove con una certa indipendenza. E molto timida e non si riesce a cavarne fuori altro che “è contenta e soddisfatta di venire qui”.

Ayaz invece è maschio. Anche lui colpito da poliomielite. Tre anni in questo istituto. Non ci racconta dei suoi miglioramenti, ma dice che vuole studiare. Il suo obiettivo è raggiungere un alto livello di studio. Gli auguro di riuscirci. Farà qualcosa per sè e anche qualcosa per il Pakistan.

Ma senza fondi, senza controllo, senza qualità non ne uscirà granchè. Scordiamoci l’inondazione. Rischia di essere una giustificazione. Il lavoro e l’aiuto devono cominciare ora.

Ecco: questo è il risultato di tre giorni di lavoro. Non un gran risultato. A parte le conseguenze sull’anima.

Mentre tutto questo si svolgeva, è esplosa un’auto bomba a 100 metri dalla guesthouse in cui dormivamo. Per fortuna eravamo appena usciti per il primo giorno in field a Nowshera. La bomba, di 110 chili, è esplosa al passaggio di alcuni impiegati americani di non so quale organizzazione. Che, per fortuna nostra, sono usciti 10 minuti dopo il nostro passaggio. 2 morti e 19 feriti. Altre 4 bombe disinnescate nelle ore successive. Da quel momento in avanti siamo diventati oggetto delle attenzioni della “security” e dell’intelligence pakistana.

La cosa mi ha innervosito un pochino: sfuggire alla morte e essere al centro dell’attenzione dell’ISI nello stesso giorno è abbastanza stressante. Ma tutto si è concluso per il meglio: siamo stati infilati sull’autostrada, in direzione Islamabad, con la massima gentilezza e rapidità possibile. Manzur l’abbiamo salutato in un piccolo ristorante lungo la strada. Con un funzionario in borghese della security, che mangiava al tavolo accanto al nostro.

Raggiungiamo la motorway poi via verso Islamabad, sempre senza autorizzazione.

Ciao!